92mila secondo la questura e centinaia di migliaia secondo gli organizzatori. Questi i numeri della marcia per la democrazia che ha sfilato ieri per le strade di Hong Kong. Intanto sono stati resi noti i risultati del referendum auto-organizzato per il suffragio universale: 800mila votanti di cui l’87,8 per cento convinto che l’organo legislativo di Hong Kong dovrebbe porre il veto a qualunque proposta governativa che non soddisfi gli standard internazionali.
Il primo luglio del 1997 si concluse quel percorso politico e diplomatico che avrebbe riportato Hong Kong alla Cina, attraverso il trasferimento della sovranità da Londra a Pechino. L’accordo firmato da Thatcher e Deng Xiaoping, riportava sotto l’ala cinese l’ex colonia britannica, dando vita alla sistemazione politico- amministrativa nota alla storia come «un paese, due sistemi». Da allora ogni primo luglio a Hong Kong si svolge una «marcia per la democrazia», che quest’anno ha connotati nuovi.
Nei mesi precedenti, si è realizzato un periodo di lunghe proteste, con la nascita del soggetto politico chiamato Occupy Central (formato da attivisti, professori universitari e alle cui iniziative hanno partecipato anche volti noti delle manifestazioni cinesi del 1989), c’è stato un referendum sulla democrazia dell’isola e infine la pubblicazione da parte di Pechino del «Libro Bianco» su Hong Kong che tanto ha fatto discutere.
La «marcia» è attesa con tale tensione da portare a speciali esercitazioni la polizia dell’isola e alla minaccia da parte di alcune aziende internazionali di abbandonare l’eco-sistema economico di Hong Kong, nel caso in cui le proteste politiche rendano instabile l’ex colonia britannica. Secondo gli accordi del 1997, Hong Kong avrebbe mantenuto le proprie consuetudini «democratiche», ma sarebbe stata da considerarsi territorio cinese; nel 2007 era stato infine stabilito che l’isola avrebbe ottenuto il suffragio universale nel 2017, la data delle prossime elezioni.
Quasi vent’anni dopo il 1997, infatti, le cose sono progredite e non poco. La Cina ha compiuto il suo miracolo economico e ha stretto Hong Kong in una morsa di controllo politico-amministrativo sempre più forte, arrivando a influenzare non poco i destini politici dell’isola e creando una propria zona economica speciale a Shanghai, per contrastare l’indipendenza supposta della comunità d’affari dell’ex colonia.
Hong Kong è ancora oggi, però, uno straordinario mix tra est ed ovest, capace di ammaliare e conquistare, pur nella sua caoticità tipicamente asiatica. Le sue strade, i suoi palazzi fatiscenti, alcuni quartieri capaci di catturare l’immaginario occidentale, anche grazie a celebri produzioni cinematografiche come quelle di Wong Kar-wai, hanno permesso all’ex colonia di diventare un incredibile ibrido urbano, nel quale si mischiano – fino a non distinguerli più uno dall’altro – l’Oriente e l’Occidente. È inoltre il luogo dove si possono acquistare i libri proibiti da Pechino, partecipare a manifestazioni e ricordare ogni anno i fatti del 4 giugno 1989.
L’ex colonia – però – dal 1997 viene governata da politici locali; il chief executive, il primo ministro di Hong Kong, oggi viene nominato da un comitato di 1.200 membri composto in gran parte da politici pro-Pechino – quando non direttamente controllati dal Partito comunista – e persone dal mondo degli affari. Un «sistema» che oggi viene messo in discussione.
In previsione della manifestazione del primo luglio, un gruppo di attivisti di Occupy Central – il movimento che nei mesi scorsi ha occupato il parlamento di Hong Kong e che minaccia di bloccare il centro finanziario della città – ha lanciato un referendum per chiedere che vent’anni dopo l’annessione, alle elezioni del 2017, venga confermato l’utilizzo del sistema democratico di Hong Kong retto finalmente dal suffragio universale. Al referendum, che è durato dieci giorni e si è concluso ieri, hanno partecipato 800 mila cittadini su un totale di 3,5 milioni di elettori. I partecipanti hanno potuto scegliere tra tre diverse proposte di sistema elettorale.
Secondo il quotidiano cinese Global Times, la versione in inglese dell’ufficiale Quotidiano del Popolo, nonostante le iniziative di Occupy Central «recenti sondaggi indicano che la maggioranza dei residenti di Hong Kong sono a favore dell’esistenza di un comitato elettivo, e questo gruppo è in crescita. Secondo un sondaggio realizzato dal Public Opinion Program dell’Università di Hong Kong nel mese di aprile, il 51 per cento degli intervistati è favorevole ad un comitato».
In un editoriale dell’edizioni di ieri, il quotidiano del Partito comunista ha accusato gli organizzatori di non essere «patriottici». «Ci sono persone – si legge – che in apparenza sembrano civilizzate e razionali ma la loro paranoia politica non fa che crescere». Un altro quotidiano ufficiale, il China Daily, ha sostenuto che si è trattato di una «farsa anticostituzionale» realizzata con l’aiuto degli Stati uniti.
Il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, nei giorni scorsi ha invece riportato le critiche al Libro Bianco di Pechino: «Le tensioni politiche a Hong Kong sono aumentate, Pechino ha anche pubblicato un Libro Bianco, che viene letto come un secco promemoria per la città, in cui viene affermato senza mezzi termini che essa ha il potere, suscitando opposizioni feroci nella ex colonia britannica, restituita al controllo cinese nel 1997».
Secondo gli organizzatori del referendum, il sito internet che ospitava le petizioni e i quesiti referendari, avrebbe ricevuto attacchi informatici senza precedenti. A questo proposito Robert Chung, il rappresentante di Occupy che ha gestito l’intero processo su internet, ha rilasciato un comunicato nel quale si affermava che «non ci sono illegalità in quello che stiamo facendo o nella piattaforma on line che abbiamo costruito. Se questo non è accettabile, è una sconfitta per Hong Kong».
[Scritto per il manifesto; l’illustrazione di copertina è di Ailadi]