Con un messaggio televisivo la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha annunciato il ritiro del disegno di legge sulle estradizioni. Si tratta del provvedimento all’origine delle proteste che da inizio giugno hanno caratterizzato l’ex colonia britannica.
È una decisione tardiva ma che finisce per aprire nuovi scenari nella città, considerando che il ritiro della legge era la prima richiesta dei manifestanti. Il problema, oltre al tempismo, è che nel tempo le proteste hanno assunto nuove forme finendo per presentare al governo nuove richieste.
CARRIE LAM NEL SUO MESSAGGIO ha parlato anche degli altri quattro punti che al momento rendono molto distanti le parti. Per quanto riguarda la richiesta di un’indagine trasparente e imparziale sulle violenze della polizia durante le manifestazioni la governatrice ha detto che verrà avviata un’inchiesta da parte degli organi preposti a controllare il lavoro della polizia.
Per quanto riguarda la richiesta di una completa amnistia in grado di consentire la liberaazione gli arrestati, la risposta di Lam è stata l’unica netta e senza appello: no.
Sulla richiesta di non catalogare le manifestazioni come «sommosse», Lam ha precisato che il giudizio politico su quanto successo non influenzerà il lavoro della magistratura, mentre sulla richiesta di suffragio universale la governatrice ha confermato che è previsto dalla costituzione, specificando però che richiede un dialogo in altre condizioni ambientali.
Al termine del suo messaggio si possono fare alcune valutazioni, tenendo conto che in questo scenario non ci sono solo Carrie Lam e i manifestanti ma anche Pechino.
LA DECISIONE DI RITIRARE il disegno di legge può essere vista, innanzitutto, come una astuta mossa strategica: di fatto Lam toglie dalle parole d’ordine dei manifestanti il punto all’origine della protesta.
Può essere che molti si possano ritenere soddisfatti, rompendo così il fronte unitario delle proteste. Analogamente questa decisione potrebbe anche andare bene a Pechino: la Cina a questo punto potrebbe giustificare decisioni più pesanti, come la proclamazione dello stato d’emergenza, nel caso le manifestazioni continuassero nel loro virulento attacco alle autorità cittadine e a quelle cinesi.
LO SCOPO DELLA MOSSA di Lam, dunque, potrebbe essere quello di dividere i manifestanti.
Naturalmente c’è anche un altro scenario: Lam sembra ormai molto più di un’anatra zoppa, ha di sicuro perso la fiducia di Pechino e potrebbe aver preso la decisione senza avere un via libera ufficiale dalla Cina. È un’ipotesi piuttosto improbabile ma non impossibile. In questo caso Pechino potrebbe smentirla e costringerla alle dimissioni, decidendo così di procedere nel modo più duro. La stessa Lam nell’audio pubblicato da Reuters due giorni fa assicurava un gruppo di businessmen che Pechino non avrebbe intenzione di schierare l’esercito, ma a questo punto tutto cambia.
Altra suggestione: il primo ottobre si celebrano i 70 anni della Repubblica popolare e può essere che la Cina abbia chiesto a Lam di stringere sui tempi, per verificare le condizioni di celebrazioni «sobrie ma solenni» come le ha definite la stessa governatrice.
IL QUADRO DIVENTA ancora più complesso se andiamo ad analizzare le reazioni che potrebbe suscitare l’annuncio di Lam tra i manifestanti. Il movimento si è sempre dichiarato senza capi e orizzontale eppure alcune organizzazioni sembrano più protagoniste di altre, come ad esempio quella di Joshua Wong giovane leader che pare essere piuttosto incauto nel gestire la propria notorietà (si è fatto fotografare con esponenti americani, un fatto che non gioca a favore del resto delle proteste).
DATE QUESTE PREMESSE, benché Lam abbia preso una decisione tardiva, sarebbe interesse di chi protesta riconoscere rappresentanti in grado di cogliere la palla al balzo e gestire un livello di dialogo che ora come ora appare possibile, benché non sia scontato.
La fiducia in Lam è tragicamente ai minimi storici e in pochi ritengono ci si possa fidare delle sue parole (come confermano le reazioni in gran parte negativi dei manifestanti sui loro canali di comunicazione), ma ora sembra arrivato il momento della politica. E della capacità di unire alle richieste già note, anche una chiara visione «sociale» di come tutti questi giovani immaginano il futuro di Hong Kong.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.