Mike Pompeo, il segretario di Stato degli Stati uniti, ha dichiarato che «Hong Kong non è più autonoma dalla Cina». Si tratta di una dichiarazione inaspettata che va a complicare un quadro già ricco di elementi di tensione. L’esternazione di Pompeo è la conseguenza della proposta di legge sulla sicurezza nazionale dell’ex colonia a cui stamattina l’assemblea legislativa cinese ha dato il semaforo verde in vista di una sua eventuale applicazione (passaggi non del tutto scontati).
LA MOSSA DEGLI USA non farà che aumentare le tensioni tra Washington e Pechino mentre a Hong Kong continuano le proteste, e gli arresti, a seguito dell’annuncio della Cina di qualche giorno fa. Le conseguenze dello statement di Pompeo al Congresso – «Nessuna persona ragionevole può affermare oggi che Hong Kong mantenga un alto grado di autonomia dalla Cina, dati i fattori sul campo» – potrebbero essere di diverso tipo: da un lato esiste un rapporto economico «privilegiato» tra Usa e Hong Kong che potrebbe cambiare o essere annullato del tutto a seguito del comunicato del segretario di Stato.
Nella nota con la quale Pompeo ha annunciato la decisione americana, però, si fa riferimento allo Human Rights Hong Kong Act che prevede sanzioni nei confronti di persone responsabili di violazioni dei diritti umani. Quale sarà la strada scelta dalla Casa bianca non si sa, considerando inoltre che la decisione degli Usa è apparsa quanto meno azzardata in assenza, per ora, del testo della proposta di legge sulla sicurezza nazionale annunciata da Pechino.
NEL FRATTEMPO per la popolazione di Hong Kong il limbo si fa sempre più pericoloso e incerto. Come hanno fatto notare alcuni report, tra l’altro, se gli Usa decidessero di interrompere le relazioni privilegiate con l’ex colonia, ne pagherebbe un peso non da poco sicuramente la Cina, ma anche per molte aziende americane si tratterebbe di un duro colpo da sopportare.
Come riporta Reuters, infatti, «una revoca dello status speciale causerebbe problemi alle oltre 1.300 società americane» che operano a Hong Kong, «tra cui quasi tutte le principali società finanziarie statunitensi». Secondo i dati del Dipartimento di Stato Usa, nel 2018 erano almeno 85.000 i cittadini statunitensi nell’ex colonia.
SENZA CONTARE le più che probabili ripercussioni cinesi a seguito dell’annuncio di Pompeo sui visti e sull’accesso a Hong Kong (e alla Cina).
Nel caso di sanzioni la situazione sarebbe ancora più confusa: Washington davvero ha intenzione di sanzionare Xi Jinping? Stando a quanto ha riportato nei giorni scorsi l quotidiano Japan Times, rispondendo a domande sull’eventuale imposizione di sanzioni alla Cina per le sue azioni a Hong Kong, Trump ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca: «Stiamo facendo qualcosa adesso. Penso che lo troverete molto interessante. Ma non parlerò oggi». «È qualcosa di cui sentirete parlare… prima della fine della settimana, penso con molta forza». La situazione rimane dunque confusa, per ora, in attesa di capire quale sarà la reazione diplomatica e non solo da parte di Pechino.
La giornataccia cinese però non si è conclusa con l’anatema americano su Hong Kong, perché ieri era attesa anche la decisione della corte canadese sul processo a Meng Wanzhou, responsabile finanziaria nonché figlia del fondatore della Huawei, l’azienda cinese leader nelle reti di comunicazione e nella produzione di smartphone: il suo processo continuerà.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.