Dietro lo stallo politico nel confronto tra il governo e il movimento di Hong Kong, c’è una fondamentale questione identitaria: i giovani che manifestano si sentono etnicamente cinesi, ma non secondo l’idea di Cina dettata da Pechino. E non amano particolarmente i "continentali". Proviamo ad approfondire il tema con Gordon Mathews, antropologo della Chinese University di Hong Kong, che ha vissuto la contraddizione sul campo, a Mong Kok. I leader degli studenti hanno fatto appello a un raduno di massa ad Admiralty, dopo che il segretario in Capo Carrie Lam ha annullato l’incontro programmato per oggi. Il governo ha cancellato l’appuntamento definendolo “non costruttivo” poiché gli studenti avevano precedentemente annunciato il mantenimento dei blocchi stradali e minacciato nuove manifestazioni come strumento di pressione sulla controparte nel corso dei colloqui. Secondo Lam, gli studenti non possono tenere in ostaggio la città come arma per far valere le proprie ragioni.
La situazione è in divenire e si attende di vedere se il movimento offrirà una prova di forza, ma l’impressione è che, dietro allo stallo politico, ci sia una fondamentale inconciliabilità.
Da un lato, il governo, che non può fare concessioni che prescindano dalle linee guida dettate dal Consiglio Nazionale del Popolo cinese, il supremo legislatore secondo la Basic Law hongkonghese. Oggi, alcuni membri filogovernativi del LegCo, il locale consiglio legislativo, hanno specificato che i colloqui sono stati annullati perché i pan-democratici – i partiti d’opposizione che appoggiano Occupy – hanno cercato di boicottare i lavori del parlamentino di Hong Kong.
Dall’altro, il movimento, con a capo gli studenti, che considera come base per i colloqui la rinuncia, o comunque la revisione, di quelle linee guida. E che chiama alla mobilitazione fino a quando non si verificheranno progressi in quella direzione.
A fare ulteriormente da sfondo, c’è una complessa questione identitaria.
«Una donna sulla quarantina sta discutendo con i manifestanti e sostiene che, “dopo tutto, siamo tutti cinesi di sangue! Perché non ci riconosciamo in questo?” I manifestanti, per lo più ventenni, gridano all’unisono: “Noi non siamo cinesi. Siamo hongkonghesi!” E poi si guardarono increduli … Questo può riassumere una frattura generazionale: dopo l’handover, i giovani di Hong Kong avrebbero dovuto essere educati a diventare cinesi, ma i sentimenti di molti si sono mossi in direzione diametralmente opposta. Il grado di reciproca incomprensione, in questa discussione, è straordinario.»
A raccontare questo aneddoto dal sit-in di Mong Kok, a Kowloon, è Gordon Mathews, professore di antropologia alla Chinese University di Hong Kong. La sua testimonianza è stata poi diffusa in rete e ripresa dal South China Morning Post.
Con lui, parliamo di questa inconciliabilità.
Professore, lei vive a Hong Kong e si è occupato nei suoi studi anche di “identità”. Ci sa dire, da questo punto di vista, chi sono i manifestanti che riempiono le strade in questi giorni?
Sarebbe improprio generalizzare, posso dire che la gente che ho visto a Mong Kok, per esempio, non si sente cinese in quanto “membro di quella determinata società”. A mio avviso, l’estendersi della protesta dipende da questo elemento: sentono Hong Kong come la propria casa, non la Cina continentale; e sentono ancor meno proprio il “governo cinese”.
Vuol dire che si sentono etnicamente cinesi ma non si sentono tali in quanto storia politica?
Nessuno negherebbe la propria identità etnica cinese, ma l’essere cinese, così come è definito dal governo di Pechino, è qualcosa che molti rigettano con enfasi.
Molti continentali, anche di ampie vedute, ripetono il mantra: la Cina è il padre, Hong Kong e Taiwan sono i figli. Dall’altra parte, come è vista questa formula?
Molti dicono che è una frase senza senso. Per loro la Cina non è solo una dittatura, ma anche un posto dove ci sono comportamenti collettivi molto poco raffinati. Non dico che questo sia vero, né che sia un sentimento condiviso da tutti gli abitanti di Hong Kong, dico solo che molti tra quelli che scendono in piazza la vedono così: si sentono hongkonghesi più che cinesi in senso lato. E posso aggiungere che è un sentire abbastanza diffuso anche a Taiwan.
È anche una questione generazionale?
Sì, gli hongkonghesi più giovani provano maggiormente questo sentimento. Il che è sorprendente, visto che l’handover è avvenuto quasi vent’anni fa. Ma è così.
Del resto, sul continente c’è un vero deficit di comprensione rispetto alla natura particolare di Hong Kong.
Parlando con i portuali di Hong Kong, ho avvertito una vera e propria paura della Cina, in parte motivata dal terrore che un legame più stretto possa tradursi in dumping sociale – con il trasferimento delle attività produttive sul continente – ma anche come qualcosa di più irrazionale, incombente. Ha qualche idea in proposito?
Questa osservazione è giusta, ma si consideri che se un tale sentimento è vero per i portuali, la componente più presente in Occupy è quella studentesca, non operaia. La paura della Cina si estende quindi ad altre sfere. Per esempio, l’aumento della corruzione a Hong Kong, soprattutto tra i funzionari. Ed ecco lo scandalo della Ugl che allunga una megatangente al Chief Executive Leung. Ebbene, secondo molti hongkonghesi, queste pratiche riflettono comportamenti che arrivano dalla Cina continentale e che si estendono sempre più.
La seconda ragione è la negazione del diritto di scegliere democraticamente.
Infine, il fatto che Pechino ha fatto enormi sforzi per sedurre gente come Li Ka-shing, cioè quelli che stanno ai vertici della scala sociale. E gli studenti, così come altri partecipanti a Occupy Central, si sentono esclusi da questo scambio: Pechino si lega al grande capitalismo e non vuole dare la parola alla gente comune.
Gli studenti temono che la Cina minacci anche il loro futuro materiale?
Sì. Per esempio, molti ricchi cinesi vengono a Hong Kong e comprano proprietà immobiliari, i prezzi si impennano e la città diventa un posto dove è sempre più difficile vivere per gli honkonghesi originari e per i giovani che devono costruirsi un futuro.
È la sensazione che la città sia decadente? Mi riferisco anche alla concorrenza con Shanghai.
No, gli studenti pensano che sia la Cina a essere decadente, perché si basa sul binomio ricchezza-corruzione, che magari poi si travasa a Macao con il gioco d’azzardo. Hong Kong non è percepita come in declino ed è proprio per questo che gli studenti protestano.