Un mese dopo. Mentre perdura la situazione di stallo che sembra risucchiare le energie della metropoli, alcuni nodi all’interno di Occupy vengono al pettine. Come fare quando la democrazia diretta si rivolge contro la leadership che si è creata in corso d’opera? Come ricomporre le diverse anime del movimento? Il passaggio dalla fase di piazza a quella politica si è inceppato. A un mese dall’inizio di Occupy, i manifestanti hanno organizzato una scenografica levata d’ombrelli per commemorare la sera in cui furono bersagliati dai lacrimogeni. Tutto molto bello, celebrativo e autocelebrativo. Ogni rito crea comunione e rafforza lo spirito, come la stessa cultura della grande Cina dietro le spalle ha sempre insegnato.
Ma la politica a che punto sta?
Ci sono problemi di democrazia diretta per la wannabe Polis d’Oriente. Mentre la situazione è in stallo, i leader del movimento pro-democrazia avevano infatti deciso di organizzare in fretta e furia un sondaggio elettronico finalizzato – a loro dire – a fare pressioni sul governo in vista di ulteriori incontri.
Avrebbero messo ai voti due opzioni: la prima richiedeva a Pechino di ritirare le linee guida di agosto, quelle contestatissime, che concedono il suffragio universale ma non la nomina popolare dei candidati alla carica di Chief Executive; la seconda chiedeva la rimozione delle quote riservate ai gruppi d’interesse nel Consiglio legislativo (il parlamento locale) e reiterava la richiesta di candidatura dal basso dell’"amministratore delegato".
Alla fine, i leader studenteschi e gli Occupy originari – come il co-fondatore Benny Tai – hanno dovuto annullare l’iniziativa per l’opposizione di altre, non meglio specificate, componenti interne al movimento. Il problema fondamentale – pare – è che questa sorta di leadership collettiva che si è venuta a creare durante le settimane di lotta ha dato un preavviso troppo corto, senza che né l’iniziativa in sé, né le opzioni concrete fossero discusse. Insomma, c’era il rischio di attirarsi la consueta accusa di “leaderismo” che ha accompagnato tutta la parabola di Occupy, movimento complesso ed estremamente differenziato al suo interno (si va dal sindacalismo di base a gruppi di destra xenofobi anticinesi, passando per i bravi studentelli e gli attempati professori).
“Piccole frizioni”, ha puntualizzato il segretario generale della Federazione degli Studenti, Alex Chow-Yong, “il che non significa assolutamente che l’occupazione finirà”.
Così, si ricomincia a fare pratica di democrazia diretta, dal basso: “Abbiamo iniziato a creare gruppi di discussione”, ha detto Benny Tai al Suth China Morning Post. “Molti volontari stanno raccogliendo le opinioni dei manifestanti nelle zone occupate per vedere come il movimento debba andare avanti”.
Ed ecco l’osservazione fondamentale: “Abbiamo trascurato il fatto che un movimento civile non è solo questione di voto, ma anche di un processo decisionale dal basso verso l’alto. Ora stiamo tornando su questo punto nodale e cercando di capire se si debba votare”.
Nelle discussioni si dovrebbe proporre anche l’ipotesi che cinque parlamentari pan-democratici del Consiglio Legislativo si dimettano, uno per ognuna delle circoscrizioni elettorali della città. La mossa obbligherebbe il governo a indire elezioni suppletive che, secondo Alex Chow, si tradurrebbero di fatto in un referendum sul pacchetto di riforma costituzionale che sarà presentato dalle autorità per le elezioni del 2016 e 2017.
Ma tra i dire e il fare c’è di mezzo il mare o, quanto meno, la baia di Hong Kong, che divide i due sit-in principali: quello insulare di di Admiralty – studenti del ceto medio e impiegati – e quello peninsulare di Mong Kok, tendenzialmente working class. Già nelle scorse settimane, alcune decisioni prese dalla leadership “spontanea” erano state disattese dai “duri e puri” di Mong Kok, come quella di abbandonare il medesimo sit-in.
Sophia Chan, militante di Left21 ci ha raccontato che a Mong Kok si rifiuta non solo ogni leadership, ma ogni rappresentanza: “Chi vuole, va lì e parla”. I gruppi organizzati sono stati più volte boicottati nelle loro iniziative di incanalare il sit-in su una linea politica. Non c’è bisogno di violenza fisica, basta mettersi a gridare e a fischiare mentre, per fare un esempio, gli studenti vogliono trasmettere un film e poi aprire una discussione. Lì, si occupa e basta, resistendo anche agli assalti fisici degli anti-Occupy, in odore di triadi mafiose, che bazzicano da quelle parti.
Così, è lo stesso Alex Chow ad ammettere ora che “alcuni [manifestanti] pensano che il testo della nostra proposta [le due opzioni da votare] sia troppo mite. Si sentono come se fossimo sul punto di fare un passo indietro, dopo tutto questo tempo in cui hanno occupato le strade”. Vogliono che “il legislatore nazionale ritiri la sua delibera di agosto”, punto e basta.
Dall’altra parte (ma sempre all’interno del movimento) “alcune persone sono in sintonia con il governo e pensano che non ci sia altro da fare”, dice il leader degli studenti.
Va ricordato che la numero due dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha proposto agli studenti di costruire una piattaforma comune per il post-2017 finalizzata a interagire meglio con il governo di Pechino. Ha anche promesso di rivedere la composizione della commissione elettorale per le elezioni del Chief Executive affinché tutte le componenti della società hongkonghese siano meglio rappresentate.
A questo punto, il movimento sembra davvero spaccato in due e, come mossa interlocutoria, Chow ha esortato il governo a stabilire una vera e propria tabella di marcia affinché si arrivi quanto prima a quello che gli attivisti chiamano una “democrazia genuina”. Ma è chiaro che l’esecutivo non può promettere nulla in questo senso.
Intanto, lo schieramento anti-Occupy ha lanciato sabato una petizione che chiede la fine delle proteste ed esprime appoggio alla polizia. Finora, avrebbe raccolto circa 650mila firme.
La società hongkonghese appare davvero spaccata. E pure il movimento.