Il Buddhismo, la cui nascita è datata intorno al VI secolo a.C, si diffuse dall’India in tutta l’Asia, approdando in Cina, Giappone e Corea, dove si sviluppò dando origine a diverse scuole di pensiero. Durante questa fase di espansione, artigiani, commercianti, missionari e pellegrini svolsero un ruolo chiave nel favorire lo scambio di idee, l’incontro di culture, tradizioni e conoscenze tra l’impero indiano e le varie regioni cinesi.
L’India è un Paese dalla cultura millenaria da cui si può trarre grande ispirazione, storicamente meta delle anime perse in cerca di un cambiamento, o meglio di un ritrovamento. Tra i più celebri testi italiani scritti sull’India sotto forma di racconto e diario di viaggio, vi sono L’odore dell’India (1962) di Pasolini e Un’idea dell’India (1962) di Moravia. Usciti nello stesso anno, questi libri sono frutto di un viaggio in India che i due scrittori hanno compiuto insieme nel 1961. Raccolte di immagini, pensieri e riflessioni riguardo questo Paese lontano, ma in qualche modo pur sempre accogliente e familiare.
Nonostante il Buddhismo sia oggi presente in molti paesi del mondo come in Cina, Myanmar, Giappone, Tibet, Sri Lanka, Thailandia e Cambogia, la dottrina buddhista nacque in realtà in India, dove oggi rappresenta solo il 0.7% della popolazione (secondo l’ultimo censimento del 2011). Tale filosofia, la cui nascita è datata intorno al VI secolo a.C, si diffuse dall’India in tutta l’Asia, approdando in Cina, Giappone e Corea, dove si sviluppò dando origine a diverse scuole di pensiero. Durante questa fase di espansione del Buddhismo, artigiani, commercianti, missionari e pellegrini svolsero un ruolo chiave nel favorire lo scambio di idee, l’incontro di culture, tradizioni e conoscenze tra l’impero indiano e le varie regioni cinesi.
Monaci e pellegrini che cominciavano ad avvicinarsi ed abbracciare la dottrina buddhista in Cina erano spinti dal desiderio di visitare e conoscere la terra di nascita del Buddha, oltre a sentire la profonda necessità di fondare il proprio credo sulla letteratura indiana buddhista. Essi perciò si recavano in India e, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per tutto il continente, tornavano in patria portando con sé testi che fornivano indicazioni su come svolgere rituali e cerimonie buddhiste. Questi diari di viaggio sono testi assai preziosi per storici, archeologi e buddhologi poiché contengono descrizioni dettagliate sui rapporti tra l’India e la Cina antica, sulla società indiana dell’epoca, le sue regole e istituzioni, usanze, rituali e storie popolari.
Faxian, Xuanzang e Yijing sono solo tre esempi (i più celebri) tra i migliaia di monaci cinesi che si recarono in pellegrinaggio in India nel corso del I millennio CE. Faxian è forse il primo tra loro e sicuramente il più vecchio ad aver intrapreso (all’età di sessant’anni) questo viaggio nella lontana India, nel 399. Partì dall’antica capitale cinese Chang’an (oggi Xi’an nella provincia di Shaanxi) e viaggiò per 14 lunghi anni visitando non solo l’India, ma anche lo Sri Lanka, ritornando poi in patria attraverso la Via della Seta. Dal suo testo, A Record of the Buddhist Kingdoms, sappiamo che Faxian si era recato in India per raccogliere i testi riguardo le regole monastiche, vinaya, ritenute fondamentali per istituire una coerente e fedele comunità buddhista in Cina. Faxan riporta i dettagli di diverse cerimonie di venerazione del Buddha a cui partecipò in India e in Sri Lanka. Successivamente, proprio sulla base di queste sue memorie, in Cina si svilupparono cerimonie simili che celebravano la vita di Śākyamuni. Già attraverso le parole di Faxan si può cogliere la percezione dell’India da parte dei monaci cinesi.
Un elemento che accomuna infatti questi diari di viaggio scritti dai pellegrini è il sentimento di malinconia, in quanto essi provengono da un Paese lontano da dove il Buddha è nato, vissuto e dove ha fondato la religione buddhista. Proprio in risposta a questo forte senso di malinconia e quasi di invidia ed inadeguatezza, molti monaci cinese finivano per rimanere in India, dove potevano finalmente sentirsi vicini al loro maestro, il Buddha, e dove sentivano di poter seguire fedelmente la vita monastica. Tuttavia, c’è da aggiungere che l’India non era solo esaltata per essere la terra natia del Buddha, ma anche per essere una società sofisticata e culturalmente avanzata. I testi di Faxian, Xuanzang e Yijing furono letti e diffusi tra il clero cinese e contribuirono a far nascere e propagare l’idea dell’India come di una società civilizzata, caratterizzata dalla complessità delle sue tradizioni.
Il più illustre rappresentante di questa fase di scambio religioso e culturale tra India e Cina fu Xuanzang. Nel corso del tempo, i suoi testi hanno goduto di un notevole successo, diventando fonte di ispirazione per la creazione e produzione di numerose opere teatrali e letterarie. Il diario di viaggio scritto da Xuanzang, The Records of the Western Regions Visited During the Great Tang Dynasty, era stato commissionato dai governanti della dinastia Tang, Taizong (626-49) e Gaozong (649-683). Xuanzang arrivò in India nel 627, quando in Cina la dottrina buddhista aveva ormai affondato le sue radici con l’istituzione di diverse strutture monastiche. Il contributo del monaco fu particolarmente importante per la comunità religiosa cinese, soprattutto per le traduzioni di testi buddhisti dal sanscrito, di cui si occupò personalmente. Questa figura si distinse infatti dalle altre proprio per i suoi lavori di traduzione, grazie ai quali viene ricordato come uno dei tre migliori traduttori di testi buddhisti della Cina antica. All’età di vent’anni, Xuanzang decise di recarsi in India sia per visitare i luoghi della vita del Buddha, ma anche perché, insoddisfatto delle traduzioni dei testi buddhisti in cinese, voleva raccogliere i principi dottrinali direttamente dai maestri indiani. Le memorie di questo pellegrino non raccolgono solo nozioni di tipo religioso, ma anche di tipo geografico e storico, descrivendo in maniera dettagliata i regni e le città dell’India che visitò durante il suo viaggio. Sappiamo che Xuanzang arrivò nella città di Kanauj, la capitale dell’impero di Harsavardhana, nel nord dell’India, intorno al 637/638. Per la prima volta dalla caduta del regno Gupta nel V secolo, il regno di Harsavardhana viene ricordato come un periodo di prosperità e pace, dove sia il Buddhismo che l’Hinduismo avevano potuto fiorire in armonia. Xuanzang descrive il regno di Kanauj, raccontando le varie leggende legate alla sua fondazione e elogia il sovrano Harsavardhana, simpatizzante della dottrina buddhista, per le sue virtù. A volte non viene abbastanza sottolineato quanto questi incontri e relazioni frutto dei viaggi di pellegrini e monaci cinesi siano stati importanti non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico. Possiamo immaginare infatti che il rapporto di amicizia creatosi tra Xuanzang e il sovrano Harsavardhana abbia favorito la nascita e il seguente consolidamento delle relazioni diplomatiche tra Kanauj e la corte Tang (di cui Xuanzang si continuò ad occupare una volta tornato in Cina). Uno degli interessi del monaco nel mantenere vivo tale legame era sicuramente legato al fatto che i maggiori siti di pellegrinaggio buddhisti, insieme alla più importante Università buddhista dell’India antica a Nālandā (attuale Bihar), facevano parte del regno di Harsavardhana. Anche se in Xuanzang il sentimento di malinconia è presente, egli reagisce a in maniera completamente diversa rispetto a Faxian, in quanto è espressamente spinto da una vena missionaria, come si comprende da questo passaggio:
“Perché vuoi andartene dopo essere venuto qui?” chiese uno dei monaci di Nālandā. “La Cina”, continuò, “è una terra di confine dove la gente comune e il Dharma vengono disprezzati; i Buddha non sono mai nati in quel paese. Poiché le persone sono di mentalità chiusa e ristretta, con profonda impurità morale, i santi e saggi non vi si recano. Il clima è freddo e la terra è piena di montagne pericolose. Di cosa hai nostalgia?” Xuanzang rispose: “Il Re del Dharma (cioè il Buddha) ha fondato i suoi insegnamenti ed è giusto che li propaghiamo. Come possiamo dimenticare coloro che non sono ancora illuminati mentre noi abbiamo ottenuto l’Illuminazione?”.[1]
Il monaco e pellegrino cinese Yijing, invece, si recò in India nel 671, facendo ritorno in Cina nel 695. Scrisse The Record of Buddhism As Practiced in India Sent Home from the Southern Seas e il Memoirs of Eminent Monks who Visited India and Neighboring Regions in Search on the Law during the Great Tang Dynasty. Quest’ultimo testo è di particolare interesse poiché raccoglie tutte le biografie dei monaci buddhisti cinesi che si recarono in India nel VII secolo. A differenza dei racconti degli altri pellegrini, i lavori di Yijing non suscitarono grande interesse tra gli studiosi. In questo secondo scritto egli compara la vita monastica in India e in Cina, evidenziando come in quest’ultima i rituali e le cerimonie buddhiste siano praticate erroneamente rispetto a quelle “originali”. Secondo il monaco, alcune di queste discrepanze sono causate dalle differenze culturali tra i due paesi, suggerendo che in questo caso sia necessario stabilire un compromesso. Simpatico l’esempio delle bacchette utilizzate in Cina durante i pasti, usanza non presente in India dove i monaci mangiano con la mano destra.
“Quanto al modo di mangiare”, in India la gente “usa solo la mano destra, ma gli è permesso utilizzare un cucchiaio se per caso ha avuto una malattia o per un qualche altro motivo. Non abbiamo mai sentito parlare di bacchette in nessun luogo dell’India; non sono menzionate nel Vinaya delle Quattro Scuole[2] e si trovano solamente in Cina”. Yijing suggerisce infatti che, poiché nelle regole monastiche buddhiste “l’utilizzo delle bacchette non è ammesso né proibito”, esse potevano essere usate, “se rifiutiamo ostinatamente il loro uso, la gente in Cina potrebbe mettersi a ridere o lamentarsi”.[3]
[1] Rongxi, L. (1995). A Biography of the Tripitaka Master of the Great Ci’en Monastery of the Great Tang Dynasty. Berkeley: Numata Center for Buddhist Translation and Research, 138; Sen, T. (2003). Buddhism, Diplomacy, and Trade: The Realignment of Sino-Indian Relations. Honolulu: Association for Asian Studies and University of Hawai`i Press, 11–12.
[2] Per approfondire: Takakusu, J. (1982). A Record of the Buddhist Religion as Practiced in India and the Malay Archipelago (AD 671–695). New Delhi: Munshiram Manoharlal Publishers Pvt. Ltd.
[3] Takakusu, A Record of the Buddhist Religion, 90.
Di Maria Casadei*
*Laureata Magistrale in Lingue e Culture Orientali con specializzazione hindi e urdu. Attualmente è dottoranda in sociolinguistica a Cracovia, in Polonia. Appassionata di Asia, lingue, cinema e letteratura, scrive per myindia e VeNews, per il quale si occupa delle recensioni di film indiani/dell’Asia meridionale in concorso alla Biennale di Venezia.