Da quasi 50 anni, più di 300 mila Bihari vivono nelle baraccopoli di Dhaka. La più grande, conosciuta come ‘Geneva Camp’, è solo una dei 66 campi creati dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) negli anni ’70 per proteggere la popolazione bihari dai militanti bangladeshi. Himalayan Seeds, la rubrica sull’universo indiano a cura di Maria Casadei
Al momento della sanguinosa Partizione dell’India, avvenuta nel 1947, i musulmani furono invitati a lasciare il proprio paese per recarsi in Pakistan, neo-stato di religione islamica allora diviso in una zona occidentale (attuale Pakistan) e una orientale, corrispondente all’odierno Bangladesh. Nel 1951, circa 120 mila musulmani dello stato del Bihar, situato a nord-est dell’India e confinante con il Bangladesh, si trasferirono nel Pakistan orientale per professare liberamente la propria religione, l’Islam.
Inizialmente i musulmani immigrati nel Pakistan orientale vennero ben accolti dal governo pakistano, che concesse la cittadinanza e trovò loro un impiego nel settore ferroviario. Tuttavia, la politica linguistica di Muhammad Ali Jinnah, secondo cui la lingua nazionale del Pakistan doveva essere l’urdu, creò divisione all’interno del Paese. Nonostante i Bangladeshi fossero di religione islamica, non parlavano urdu ma il bangla. Ecco così che non appena Muhammad Ali Jinnah impose la lingua urdu in tutto il Pakistan, la zona orientale, che reclamava una propria identità culturale e linguistica, dichiarò l’Indipendenza. Nel 1971, il Pakistan orientale divenne Bangladesh (da desh ‘paese, territorio’ del Bengal).
Dopo questi cambiamenti politici i Bihari si trovarono progressivamente isolati e chiesero asilo politico all’India, che rifiutò. Per risolvere la questione il governo bangladeshi decise quindi di concedere ai migranti bihari la cittadinanza, ma la maggior parte non accettò chiedendo di rientrare in Pakistan. Questa richiesta non fu mai esaudita, anzi, quest’ultimi vennero sistemati nelle baraccopoli, dove risiedono ancora oggi. Le ragioni di tale condizione risalgono alla lotta dei bangladeshi per l’Indipendenza, durante la quale i Bihari supportarono apertamente il Pakistan occidentale sia dal punto di vista militare che politico. Per questo motivo, in seguito alla nascita del Bangladesh, i migranti bihari furono perseguitati, derubati e uccisi perché considerati alleati del nemico. La violenza dei milianti bangladeshi nei confronti della comunità bihari raggiunse livelli così alti che l’ICRC decise di creare dei campi dove i migranti potessero stabilirsi e vivere in sicurezza.
Nell’agosto del 1973, l’India, Pakistan e Bangladesh firmarono il ‘New Delhi Agree’, un accordo che, tra i diversi punti, mirava anche a trovare una soluzione al problema dei migranti bihari. Negli anni successivi, il Pakistan, insieme al supporto dell’ICRC, ripatriò circa 175 mila Bihari, lasciandone però 300 mila nei campi bangladeshi a causa della mancanza di fondi. Da allora la situazione non è cambiata, i Bihari possiedono la cittadinanza pakistana ma il Pakistan non si adopera per il loro rimpatrio, dando la colpa alla crisi economica e politica che da anni incombe sul Paese.
Definire lo stato giuridico della comunità bihari rimane una questione complessa, il più del volte semplificata con la denominazione di ‘cittadini senza stato’. Nel contesto della Partizione, i Bihari erano identificati come muhajirs, termine religioso per indicare i migranti che si recano in una terra islamica per sfuggire alla persecuzione. Oggi non sono più muhajirs, o cittadini del Bangladesh in piena regola e non sono nemmeno riconosciuti come minoranza religiosa. Non rientrano neanche nella categoria di rifugiati, né di migranti.
Nella baraccopoli conosciuta come ‘Geneva camp’ risiedono quasi 25 mila Bihari. I più ricchi hanno potuto trasferirsi altrove, ma una grande parte è rimasta a vivere all’interno del campo. In tutti questi anni, le sfavorevoli condizioni economiche non hanno permesso ai migranti di assimilarsi con la società bangladeshi. Fino al 2000 ai Bihari non era possibile accedere all’istruzione pubblica, su 25 mila solo il 5% è istruito. Nella maggior parte dei casi, le famiglie della comunità bihari non possiedono risorse sufficienti per pagare le rette scolastiche e mandare i figli a scuola. Attualmente, (r)esiste solo una scuola che offre istruzione gratuita all’interno del campo, la Junior High School, attiva dal 1974. A causa del basso livello di educazione, tra i Bihari il tasso di disoccupazione è molto alto; la maggior parte non lavora, mentre una piccola percentuale trova impiego a giornata, solitamente nel settore dell’edilizia.
A marzo 2022, il PM del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha dichiarato che si impegnerà per migliorare le condizioni di vita dei bihari che vivono nelle baraccopoli di tutto il Bangladesh, non solo a Dhaka. Il piano proposto dal PM prevede l’assunzione dei bihari – noti per la loro all’abilità nei lavori manuali – da parte delle aziende bangladeshi, le quali provvederanno una buona sistemazione ai lavoratori e alle loro famiglie. Un piano ammirevole, ma che con molta probabilità non verrà mai attuato, almeno nel prossimo futuro. Su Sheikh Hasina non grava infatti solo la questione bihari: la crisi dei Rohingya, iniziata ad agosto 2017, rimane drammaticamente irrisolta, mentre lo scorso ottobre il numero dei rifugiati birmani richiedenti asilo in Bangladesh ha superato il milione.