Add editore porta in Italia “Sopravvissuta a un gulag cinese”, la prima testimonianza scritta di una donna uigura sottoposta alla reiducazione cinese. La recensione di China Files
Tutto è comincia una mattina del novembre 2016. Gulbahar Haitiwaji vive in Francia da dieci anni quando riceve una telefonata dalla compagnia petrolifera cinese per cui ha lavorato fino al momento dell’espatrio: deve tornare immediatamente a Karamay, in Cina, per sbrigare alcune pratiche amministrative. Deve tornare nel Xinjiang, la regione al confine con l’Asia centrale dove per circa un secolo la collisione tra le spinte indipendentiste locali e l’omologazione culturale imposta da Pechino alle minoranze islamiche ha generato sporadiche fiammate di violenza. Haitiwaji sa bene quale è il rischio per chi come lei ha sposato un rifugiato politico. Per chi come lei è di etnia uigura. Ma, scacciati i timori, accetta. Se ne dovrà pentire.
Per quasi tre anni Haitiwaji è stata privata della libertà, ha subìto violenze, centinaia di ore di interrogatori, fame, freddo, torture, sterilizzazione forzata e dodici ore al giorno di propaganda cinese. Inghiottita in un sistema spietato che vuole “rieducare” per curare “l’infezione” dell’estremismo religioso. Salvata grazie alle disperate trattative della figlia e all’intercessione delle autorità francesi, Haitiwaji racconta quell’incubo in “Sopravvissuta a un gulag cinese” (pubblicato in Italia da Add editore, euro 17,10), un mémoire degli anni trascorsi tra il carcere di Karamay e la cosiddetta “scuola”, uno delle centinaia di centri dove le minoranze sono sottoposte a varie forme di indottrinamento. “Non ci sono campanelle né risposte giuste o sbagliate da dare”, racconta Haitiwaji, “ogni mattina l’insegnante entra nella classe silenziosa. È un’uigura. Una donna della nostra stessa etnia ci insegna a diventare cinesi. […] ‘Grazie al nostro grande Paese. Grazie al nostro Partito. Grazie al nostro caro presidente Xi Jinping’, recitiamo una specie di professione di fede nei confronti della Cina”.
Mentre – secondo vari superstiti – la morte a causa di negligenza, di malattia e di abuso avviene frequentemente nei campi del Xinjiang, il ricordo di Haitiwaji si concentra soprattutto sul processo di disumanizzazione a cui sono sottoposti i detenuti. In ogni struttura viene assegnata un’uniforme, i capelli sono rasati o tagliati cortissimi. In molti casi, i prigionieri vengono costretti a usare secchi per i propri bisogni davanti a tutti. Lavarsi e cambiarsi i vestiti è un privilegio concesso solo di rado. “Nel momento in cui infili l’immonda tuta e le pantofole di stoffa nera diventi una detenuta identica a tutte le altre. Da quell’istante non ti chiamano più col tuo nome, ma con il numero di matricola. La tua anima si diluisce. Nel campo di rieducazione e in prigione, la sottomissione annulla i nostri gusti, le nostre passioni.”
Come c’è finita Haitiwaji in quel posto? “Disordini di gruppo contro l’ordine pubblico”: il capo d’imputazione è lo stesso utilizzato da Pechino per eliminare dissidenti e attivisti politici. Ma la polizia ha prove sufficienti per perseguirla con l’accusa di separatismo: una foto mostra la figlia a una manifestazione indetta dal World Uyghur Congress (WUC), organizzazione che Pechino considera una sigla terroristica. Nel corso degli anni di detenzione le autorità frugano costantemente nel suo passato alla ricerca di ulteriori dettagli incriminanti. Scavano fino al 1985, l’anno in cui le proteste pro-democrazia arrivano nello Xinjiang prima di tracimare nel massacro di piazza Tian’anmen.
“C’è stato un tempo non così lontano in cui i problemi politici dello Xinjiang ci sfioravano appena. La loro eco era appena percepibile, ma noi eravamo troppo distratti dall’entusiasmo di costruirci le nostre vite”, racconta Haitiwaji. Erano gli anni Novanta. Allora “lo Xinjiang attirava a sé, dalla Cina o da altrove, gente in cerca di fortuna. La sua capitale, Urumqi, brulicava di studenti di ingegneria appena laureati, di famiglie han emigrate dall’Est, di lavoratori kazaki venuti a sfruttare pezzi di terra nella regione. In centro città sorgevano torri di uffici e centri commerciali che superavano in altezza le moschee. Le società petrolifere assumevano continuamente sia uiguri che han [l’etnia maggioritaria in Cina, ndr]. Il Grand Bazar accoglieva una popolazione variegata. Donne col velo accanto ad altre in blue jeans e felpa col cappuccio. Madri e bambini appollaiati all’amazzone su piccoli scooter si aggrappavano a padri barbuti dalla testa coperta dalla doppa, la calotta tradizionale”.
Ma era un benessere trainato da un modello di sviluppo predatorio. Come racconta Haitiwaji, “questa terra, frastagliata a ovest dalle repubbliche indipendenti, ha conosciuto soltanto brevi episodi di libertà nazionale, inframmezzati da lunghi periodi di annessione alla Cina. […] Le rivolte dei separatisti che sognavano una Repubblica indipendente del Turkestan orientale sono state inutili, i comunisti hanno colato cemento sulle nostre strade pietrose e sventrato la terra per attingere al petrolio e al gas sottostanti”.
Sembra un passaggio irrilevante ma non lo è. Secondo l’antropologo, Darren Byler, autore di “In the Camps” (Darren Byler e Ivan Franceschini: Primo Levi, la questione del potere nei campi e il capitalismo del terrore, Sinosfere), “la risposta uigura, reale e immaginata, all’espropriazione [delle risorse] ha portato all’adozione della retorica della Guerra al terrore e delle tattiche post-11 settembre da parte dello Stato. Questo spazio di guerra ha fornito la base per costruire e sperimentare le nuove tecnologie del controllo della popolazione. Allo stesso tempo, il sistema dei campi e della sorveglianza sono divenuti il vettore dell’economia regionale, attirando aziende interessate ai sussidi, ai bassi costi, al lavoro sottomesso in settori poco qualificati come la produzione di indumenti. Ciò significa che ci sono state un’azione e una risposta economica e politica che hanno prodotto la dinamica che oggi vediamo nel Xinjiang.”
E’ un aspetto che ritorna nelle riflessioni inziali di Haitiwaji, combattuta tra e il desiderio di seguire gli affetti in esilio e la volontà di soddisfare le proprie aspirazioni professionali in un contesto tutto sommato economicamente gratificante. Questo ci ricorda come a finire nelle “scuole” non sono necessariamente dissidenti e attivisti politici, ma anche ingegneri, intellettuali, dipendenti pubblici e insegnanti. Ovvero, chi muove gli ingranaggi del Partito-Stato. Nei campi non ci sono distinzioni di classe, tutti condividono la stessa sorte indipendentemente dall’estrazione sociale.
Si creano così amicizie, legami di solidarietà tra vittima e carnefice. Anche con quelle donne uigure “che hanno scelto di salvarsi la pelle entrando in polizia o nell’amministrazione pubblica locale”. Haitiwaji imprime su carta il senso di angoscia e la partecipazione al dolore delle altre detenute, sottoposte ad abusi e maltrattamenti persino peggiori. Alla desolazione si affianca il senso di colpa. Sa che godere della cittadinanza francese la protegge da punizioni ben più crudeli: “Da un lato ci riservano il massimo della pena, perché nella loro paranoia siamo traditori imperdonabili. D’altro è certo che i nostri cari in Europa si muoveranno per ottenere la nostra liberazione.” Così è stato. Il 2 giugno 2019 un processo farsa ribalta la precedente sentenza a sette anni di reclusione: Haitiwaji è libera. Può finalmente tornare in Francia.
Difficile credere che tutto questo stia succedendo nel XXI secolo. Difficile credere stia succedendo in Cina, la seconda potenza mondiale. Serve infatti quasi un “atto di fede” per non dubitare. Perché se la repressione delle minoranze etniche cinesi è constatabile a occhio nudo nella distruzione dei luoghi di culto, nella sinizzazione delle popolazioni locali e negli onnipresenti apparati di sorveglianza, quanto avviene nelle “scuole” è impossibile da verificare. La regione è pressoché blindata ai visitatori internazionali. Così la narrazione sullo Xinjiang è contesa tra i toni idilliaci della propaganda cinese e i resoconti distorti di Rebiya Kadeer, la leader della diaspora uigura in esilio, non sempre onesta nel riportare quanto avvenuto negli ultimi anni. Intanto la lista dei “desaparecidos” si allunga, le testimonianze dei sopravvissuti aumentano, così come le denunce dei ricercatori e le riprese satellitari delle presnte strutture detentive.
Secondo diversi studi – supportati dalle Nazioni Unite – oltre un milione di persone sono state rinchiuse nei campi del Xinjiang a parte dal 2016. Rispondendo alle pressioni esterne, alla fine del 2019 Pechino ha dichiarato concluso il programma di “studio”. Ma nuove preoccupanti notizie emergono senza sosta. Diminuiscono le reclusioni extragiudiziali ma l’incubo continua. Come spiega Byler su SupChina, la “rieducazione” sta assumendo una veste più “ufficiale” con l’introduzione di forme di lavoro forzato in fabbrica e detenzioni di massa supportate da incriminazioni formali. Non si tratta di un ripensamento. Per Pechino il modello applicato nel Xinjiang ha funzionato alla perfezione: le violenze sono finite, le minoranze del Far West sono state emancipate. Da cinque anni la regione autonoma non è colpita da attacchi terroristici. Tra il 2014 e il 2019 il Pil regionale è aumentato mediamente del 7,2% ogni anno, più della crescita nazionale. Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi. Il recente ricambio alla guida del partito locale sembrerebbe suggerire – se non un vero e proprio cambio di strategia – la volontà di affiancare alle misure coercitive nuove soluzioni economiche. Pochi giorni fa Ma Xingrui, il nuovo segretario, ha rimarcato “la necessità di stimolare gli investimenti e l’innovazione”, pur ribadendo sul lungo periodo la propria lealtà al comandamento della “sicurezza sociale”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.