La Cina si trova nella difficile posizione di dover contemporaneamente difendere i propri interessi economici in Ucraina, mantenere fede alla politica della non ingerenza negli affari degli altri paesi e tutelare le relazioni tanto con l’Occidente quanto con la Russia. Resta, insomma, da capire come difendere il portafoglio senza pregiudicare gli obiettivi strategici di lungo periodo.
Una partnership “senza limiti”. Poco prima dell’invasione dell’Ucraina, Pechino e Mosca ribattezzavano così le relazioni bilaterali concludendo un nuovo contratto per la fornitura di gas russo. Dopo un mese di guerra ci si chiede quali siano realmente i limiti di quel rapporto apparentemente tanto stretto da sembrare quasi un’ “alleanza”. Limiti, seppur indefiniti, riscontrabili dall’atteggiamento ambiguo mantenuto da Pechino rispetto alla crisi: solerte nell’invio di aiuti umanitari a Kiev, ma reticente a definire l’intervento armato di Mosca “invasione”.
La Cina si trova nella difficile posizione di dover contemporaneamente difendere i propri interessi economici in Ucraina, mantenere fede alla politica della non ingerenza negli affari degli altri paesi e tutelare le relazioni tanto con l’Occidente quanto con la Russia, uno dei pochi paesi influenti a livello internazionale con cui è riuscita a mantenere rapporti cordiali.
La domanda da un milione di dollari – o meglio di yuan – è se, nonostante le sanzioni internazionali, Pechino verrà incontro a Mosca; se e in che proporzione trarrà guadagno dalla crisi. Giorni fa, durante la conferenza del 10 marzo il consigliere per l’economia Oleg Ustenko ha affermato che “l’unico paese che beneficia davvero di questo conflitto armato è la Cina”. Non solo perché potrà reclamare maggiori forniture energetiche ma anche perché diventerà un “connettore tra la Russia e il resto del mondo” facendo leva su quel suo ruolo di “senior partner”. In realtà, la situazione è molto più complessa.
Il gigante asiatico è da diversi anni il principale partner commerciale della Russia. Nel 2019, la Cina ha assorbito il 14,3% delle esportazioni russe, per un valore di circa 58 miliardi di dollari, mentre ha contato per il 22% delle importazioni russe, con 47 miliardi di dollari di merci. Petrolio siberiano e tecnologia “made in China” hanno dominato gli scambi bilaterali. Sul fronte opposto la Cina è tuttavia ugualmente presente: Negli ultimi anni, quando Kiev si è allontanata da Mosca, la seconda economia mondiale è diventata il principale partner commerciale dell’Ucraina, da cui importa prodotti agricoli e attrezzature militari. Ora la guerra minaccia fortemente la stabilità delle forniture cinesi proprio mentre la Cina si trova contestualmente a fronteggiare la peggiore ondata di Covid dalla primavera del 2020, un’instabilità dei mercati a causa delle stretta normativa sul settore tecnologico, e una delicata successione politica, resa ancora più controversa dall’intesa personalissima tra il presidente cinese Xi Jinping e Vladimir Putin.
Come ha fatto notare la Casa Bianca, la Cina dovrà affrontare conseguenze significative se sosterrà “l’invasione” della Russia. Soppesando costi e benefici non sembra convenirle. La Cina e la Russia costituiscono solo tra il 15 e il 20% dell’economia mondiale, mentre i paesi del G7 rappresentano oltre il 50%. Secondo una ricerca di Gavekal Dragonomics, “per la maggior parte delle aziende cinesi, la Russia è un mercato troppo piccolo perché l’azienda valga il rischio di essere tagliata fuori dai mercati sviluppati o di finire vittima a loro volta delle sanzioni”. Senza contare che, sebbene gli interessi energetici dei due giganti convergano nel breve termine, sul lungo periodo un incremento delle importazioni di greggio russo sembra andare contro l’obiettivo “zero emissioni” di Pechino.
Ci sono già i segni di uno sforzo correttivo. La superbanca cinese AIIB e la New Development Bank, con base a Shanghai, hanno sospeso il credito per i progetti in Russia e Bielorussia. E mentre gli istituti di credito più piccoli – noti per aver eluso le sanzioni contro la Corea del Nord – potrebbero correre in soccorso di Mosca, al momento – per stessa ammissione di Washington- non ci sono segni di una violazione sostanziale delle misure punitive comminate alla Russia. Per quanto alcune compagnie tecnologiche cinesi abbiano deciso di continuare il proprio business nel paese utilizzando lo yuan, la valuta cinese, per dribblare le restrizioni internazionali – compresa l’espulsione dal sistema di pagamenti Swift.
Certo è che il gigante asiatico si sta attrezzando. Secondo le autorità statunitense, ad esempio, la Cina ha acquistato 200mila tonnellate metriche di mais americano in una sola settimana per bilanciare una possibile interruzione delle spedizioni di grano dall’Ucraina. Questo spiega perché oltre la Grande Muraglia c’è chi ritiene saranno invece proprio gli Stati uniti a guadagnare maggiormente dalla crisi.
Su China-Us Focus, Xiao Bin, Vice Segretario Generale del Centro Studi della Shanghai Cooperation Organization, ha spiegato come “costruire un’economia forte e tecnologie indigene sia una precondizione necessaria per rispondere alle pressioni del sistema internazionale”. Un commento che, se ascoltato alla lettera, potrebbe accelerare quel processo di “decoupling” che negli ultimi anni ha indirizzato la Cina verso una maggiore autonomia tecnologica con lo sviluppo di chip in-house.
Rimane poi da capire cosa ne sarà della Belt and Road, progetto con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende cinesi investendo massicciamente nelle infrastrutture euroasiatiche. Russia, Ucraina, Polonia e Bielorussia rientrano idealmente nel New Eurasian Land Bridge, visione di connettività su rotaia che dovrebbe collegare le coste cinesi al Vecchio continente, fino a Rotterdam. Giorni fa Zyxel, produttore taiwanese di router e switch, ha interrotto il trasporto merci lungo la tratta ferroviaria gestita da China Railway che congiunge la Cina all’Europa passando attraverso la Russia e la Bielorussia. La guerra potrebbe costringere a un dirottamento dei commerci verso le tratte marittime (già ingolfate dalle misure anti-Covid nei porti cinesi) o potrebbe richiedere un ruolo più centrale dell’Iran e della Turchia spostando a sud il flusso delle merci.
Pensiamo infine al danno reputazionale: quanti vorranno ancora investire nell’IT cinese dopo che Weibo, Tencent e ByteDance hanno rilanciato la disinformazione russa? Gli economisti dell’Institute of International Finance hanno già notato una grave emorragia di capitali dalla Cina, in controtendenza rispetto agli afflussi verso gli altri mercati emergenti.
La Cina non può permettersi di legare il proprio destino economico a quello di un paese che rischia di sprofondare nell’isolamento e nella recessione. A Pechino lo sanno bene. Resta da capire come difendere il portafoglio senza pregiudicare gli obiettivi strategici di lungo periodo.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Federmanager]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.