Mentre l’Unione europea appoggia l’intervento francese in Mali, la Cina rimane alla finestra. Il Mali è infatti uno dei paesi subsahariani dove la Cina ha investito di più. Al termine del conflitto, gli interessi cinesi potrebbero essere marginalizzati. E a Pechino ora stano rivedendo la strategia dello "sviluppo pacifico". Tutti gli occhi della comunità internazionale sono puntati sul Mali, nuovo fronte – o nuovo pantano – della guerra contro il “terrorismo globale”.
Se la Francia è la prima a schierare la truppe nel solco della tradizione coloniale, l’attenzione di mezzo mondo è rivolta di riflesso anche alla Cina, il Paese che negli ultimi anni è economicamente penetrato con maggiore impeto sia nel Paese subsahariano sia nell’Africa tutta: basti ricordare che nel 2011 Pechino ha accordato al governo di Bamako un pacchetto d’aiuti da 800 milioni di renminbi (circa 100 milioni di euro) come “dono” per migliorare le “condizioni di vita della gente del Mali”.
E loro, i cinesi, che dicono?
Tutti i media locali riportano le parole del portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei, che approva l’intervento militare. Ma le sfumature sono importanti. Nel denunciare l’ultima offensiva dei ribelli maliani, il governo cinese auspica infatti la rapida attuazione della risoluzione 2085 del consiglio di sicurezza dell’Onu che – ricorda Hong – “sottolinea l’importanza del dialogo politico e dal proseguimento dei negoziati”, oltre ad autorizzare il dispiegamento di “una forza a guida africana” per rispondere sul campo alle crescenti minacce alla sicurezza.
I virgolettati sintetizzano bene la tradizionale posizione cinese in politica internazionale: niente intromissione esplicita nelle vicende interne altrui e “sviluppo pacifico”. In caso, sotto ombrello Onu, appoggio ai legittimi governi quali essi siano: per Pechino non esistono “Stati canaglia”.
La posizione riflette una cautela nel maneggiare i conflitti che riguardano altri Paesi, che non è solo tradizione diplomatica e si spiega facilmente: la Cina si oppone fermamente anche a ogni intromissione nelle proprie, di vicende interne, come il Tibet o lo Xinjiang.
Il portavoce Hong ha inoltre ricordato che “la Cina ha sempre sostenuto gli sforzi del governo del Mali per salvaguardare integrità territoriale e sovranità”. E infatti, se andiamo a spulciare le cronache del passato, scopriamo che Pechino aveva già offerto sostegno militare al governo del Mali lo scorso settembre. Ai tempi, Guo Xueli, incaricato d’affari presso l’ambasciata cinese, aveva dichiarato alla televisione maliana che il Dragone avrebbe potuto offrire il proprio contributo “per quanto possibile, in particolare in campo militare dove abbiamo già una collaborazione molto vecchia.”
Per ora di fatto la Cina sta un po’ alla finestra, e intanto mette in sicurezza la propria gente e i propri interessi. In Mali ci sono circa duemila cinesi e venti imprese del Dragone – ricorda il Global Times – in un articolo in ci spiega perché la locale ambasciata di Pechino non abbia ancora deciso per l’evacuazione dei propri connazionali.
Wang Bingquan, membro della Associazione dei cinesi d’oltremare in Mali, dichiara che tutti i cittadini del Dragone che si trovavano nel nord del Mali erano stati evacuati dalla zona interessata dal conflitto già lo scorso anno e che, anche prima dell’insurrezione, le imprese cinesi erano state coinvolte solo in alcuni progetti nel nord del Paese.
“Gli impianti di altre due imprese cinesi che si trovano a circa 100 chilometri a sud delle città assediate dai ribelli [Diabaly e Konna, ndr], stanno ancora conducendo le normali operazioni con quasi 300 lavoratori”, ha detto Guo.
L’impressione diffusa in Occidente è che la Cina possa adottare una strategia “afghana”: stare militarmente alla finestra, lasciar fare il “lavoro sporco” ad altri, per poi trarre beneficio da una situazione nuovamente pacificata.
Va citato in questo senso un commento dell’Huffington Post, secondo cui Pechino trarrebbe beneficio dal dispiegamento di truppe straniere (soprattutto francesi e statunitensi) in tutta l’Africa subsahariana, per tutelare senza esporsi i propri interessi: giacimenti d’uranio e petrolio in Niger, una raffineria e un aeroporto in Ciad, una centrale elettrica in Costa d’Avorio, petrolio in Camerun, porti e aeroporti in Mauritania, cotone in Burkina Faso, ferro in Guinea e Sierra Leone, nonché costruzione di scuole, ospedali, stadi e linee ferroviarie in tutto il continente.
Ma a Pechino e dintorni il punto di vista si ribalta e il timore è che tutto potrebbe concludersi invece con una soluzione “libica”: marginalizzazione degli interessi cinesi dopo l’intervento armato.
A questo punto, Pechino dovrà rivedere la propria politica di “sviluppo pacifico” e di “non intervento”. Ma forse lo sta già facendo. Il South China Morning Post esce con un reportage sul campo d’addestramento messo in piedi nei dintorni di Pechino da un ex membro delle forze speciali portoghesi, Marco Borges.
“Nonostante le uniformi scure e i pesanti stivali neri, queste non sono le ultime reclute di una nuova unità della dell’Esercito Popolare di Liberazione – spiega il quotidiano di Hong Kong -. Il gruppo di circa 40 persone, per lo più con precedente esperienza militare, fanno parte di un corso di formazione professionale per diventare guardie del corpo d’elite che proteggeranno le imprese cinesi a caccia di risorse e contratti in alcune delle regioni più instabili del mondo”. Quelli che passano questo corso base – aggiunge l’articolo – saranno spediti in Israele per il corso avanzato.
Nella sua più recente importazione di modelli made in Usa, la Cina sta forse saltando a piè pari la fase militare per puntare direttamente ai contractors. Ovviamente, “secondo caratteristiche cinesi”.
[Scritto per Lettera43; foto credits: totallywp.com]