Dopo tre anni di battaglia legale, lo scorso 14 settembre si è conclusa con un’assoluzione la seconda udienza del processo avviato da Zhou Xiaoxuan, la ragazza che nel 2018 denunciò per molestie sessuali un noto giornalista televisivo, diventando il volto del movimento #MeToo in Cina. L’accusa chiedeva all’anchorman 50.000 yuan di danni, ma per il tribunale di Haidian (Pechino) le prove fornite dalla ragazza non sono bastate a supportare le accuse. La storia di Zhou, inizialmente celebrata come una vittoria dei diritti delle donne, riassume l’epilogo del movimento contro gli abusi sessuali in Cina, scandito da alti e bassi, segnali di incoraggiamento e brusche battute d’arresto.
A partire dal 2018, sulla scia del #MeToo americano, oltre la Muraglia il dibattito sulle discriminazioni di genere ha raggiunto diffusione virale. Tradotto in mandarino #woyeshi, il movimento ha spostato il dibattito su problemi precedentemente considerati tabù, dalle violenze domestiche alla depressione postpartum, passando per la povertà mestruale. Il tema del gender gap in tutte le sue molteplici declinazioni ha fatto breccia nella cultura pop, finendo negli spartiti musicali e sul palco del cabaret. La crescente risonanza ottenuta a livello popolare ha spinto il governo cinese a intervenire. Gli abusi sessuali hanno trovato posto nel primo codice civile della Cina comunista, mentre proprio di recente il Consiglio di Stato ha pubblicato un piano decennale per la protezione e l’emancipazione delle donne e dei bambini dove la prevenzione e delle “molestie sessuali” a scuola sul posto di lavoro viene citata ben 13 volte. Non sono mancati nemmeno arresti eccellenti: il noto cantante sino-canadese Kris Wu è ancora nelle mani delle autorità dopo la denuncia di una fan.
Questi successi sono però ridimensionati da diversi fattori. Un altro caso di alto profilo che ad agosto ha coinvolto due dipendenti di Alibaba è terminato alcune settimane fa con il proscioglimento dell’uomo e una querela contro la collega per calunnia, falsa accusa e atti osceni. Non una rarità. Secondo il Beijing Yuanzhong Gender Development Center, tra il 2010 e il 2017, 19 delle 39 cause per violenze sessuali sono state avviate dagli accusati, non dalle presunte vittime.
La questione non è nuova né limitata al #MeToo: le leggi in Cina ci sono, il problema sta nella fase applicativa. Quando si parla di abusi sessuali, il maggiore ostacolo è costituito dalla richiesta di prove schiaccianti a sostegno dell’accusa, requisito difficile da soddisfare considerata la scarsa solerzia con cui le forze dell’ordine agiscono in caso di segnalazioni. A ciò si aggiungono motivazioni politiche.
La giustizia, che in Cina risponde al Partito comunista, è incline a intervenire quando gli scandali colpiscono funzionari corrotti, uomini dello spettacolo dalla condotta disdicevole e imprenditori dediti al lusso sfrenato. Ma non quando le accuse coinvolgono categorie sociali funzionali alla longevità del sistema: insegnanti e giornalisti dei media statali – considerati emanazione del ruolo paternalistico del Partito/Stato – spesso escono dalle indagini indenni. Questa postura si riflette in maniera più ampia nella mancata accettazione delle diversità, percepite come deviante rispetto alla cultura mainstream di matrice confuciana. Quindi essenzialmente patriarcale.
Nel tritacarne di Pechino ci finisce di tutto, dalla comunità LGBT+ ai sex symbol dall’aspetto troppo effeminato, passando per le derive più radicali del femminismo, avvertite come un pericolo per la sopravvivenza della famiglia convenzionale, “cellula” del corpo sociale. Dopo una prima fase di tolleranza, il movimento è stato bersagliato da arresti e silenziato sul web. Come ci spiega Zhang Lijia, ex operaia convertita al giornalismo, “più donne diventano consapevoli delle questioni di genere, e più donne trovano modi creativi per esprimersi. In questo senso, il #woyeshi è diventato molto popolare.” Ma anche troppo ingombrante. Secondo l’esperta, “il movimento ha suscitato un certo risentimento tra gli uomini conservatori e sciovinisti. Il contesto sociale è diventato molto meno tollerante negli ultimi anni”, soprattutto dopo la nomina di Xi Jinping a presidente.
La crescente trasversalità del movimento non facilita il dialogo con l’establishment. Giovani e istruite, le promotrici del #MeToo sono figlie della classe media urbana. Utilizzano i social network, abbracciano i valori democratici e sempre più spesso si schierano apertamente contro il governo su questioni spinose che trascendono le istanze femminili, come la repressione di Hong Kong e le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Lo dimostra in maniera esemplare il caso di Yue Xin, una delle principali sostenitrici del movimento contro le molestie sessuali, arrestata nel 2018 per aver supportato, insieme a un gruppo di giovani neo-marxisti, una campagna di scioperi nelle fabbriche della Cina meridionale. La linea anti-regime è ancora più marcata tra le attiviste della diaspora oltremare. Un fattore di allarmare per le autorità.
Il pericolo è non solo che, trattando tematiche divisive, il movimento perda consensi a livello popolare, ma persino che finisca per scatenare una reazione dall’alto anche più violenta. Come l’omosessualità, ai vertici del potere il femminismo viene ormai associata a un sistema valoriale alieno e destabilizzante. Commentando il caso di Zhou Xiaoxuan, il tabloid nazionalista Global Times ha affermato che l’onda lunga del #MeToo viene cavalcata dalle forze occidentali per “fare a pezzi la società cinese”. Critiche analoghe sono state urlate dai passanti fuori dal tribunale il giorno del processo.
Come in altri frangenti, la mobilitazione dal basso, spontanea e incontrollata, viene avvertita come una minaccia per l’agognata stabilità sociale. Un assioma anche meno negoziabile ora che la questione femminile è entrata ufficialmente nel piano di sviluppo nazionale: con il rallentamento delle nascite, le politiche femminili introdotte di recente dal governo mirano ufficialmente a tutelare la donna. Ma di riflesso a consolidarne il ruolo all’interno della nuova strategia demografica per sostenere la crescita economica. Il settimanale Caixin fa notare come le violenze domestiche siano considerate “un fattore che scoraggia in maniera significativa le donne sposate dall’avere figli.”
La visione tradizionale della donna come moglie e madre ricompare nell’agenda politica proprio mentre l’emergere di tendenze “eversive” spinge il femminismo cinese verso posizioni antitetiche. Se un tempo la difesa dei diritti delle donne era appannaggio di una ristretta élite intellettuale, oggi la partecipazione corale di una fetta più ampia della popolazione, con esigenze e livelli di istruzione diversi, implica l’inclusione di esternazioni spesso populiste, talvolta radicali. Nel dibattito online non è raro trovare voci oltranziste condannare indifferenziatamente tanto il genere maschile, quanto le donne che “tradiscono” gli ideali femministi scegliendo il matrimonio, ritenuto la vera causa delle violenze domestiche oltre che un ostacolo all’affermazione professionale delle donne. La stessa Zhou Xiaoxuan, in un recente articolo comparso in inglese su “Made in China Journal” ammette che la posizione di alcune frange del movimento #MeToo rischia di alienare le simpatie dell’opinione pubblica. La diffusione di storie sensazionalistiche – spesso false – per tenere alta l’attenzione sugli abusi compromette la credibilità della causa femminile nel suo insieme.
Il problema, per Zhang Lijia, è che il #Woyeshi “non è una forza compatta, diretta da un unico principio guida”. Mentre la community si estende, la sfida sta quindi nel riuscire a tenere insieme le varie anime del movimento: sostenitrici dei diritti umani, vittime di violenze, femministe radicali e fautrici della democrazia occidentale. Tutte accomunate da un sentimento condiviso, per quanto veicolato con linguaggi e toni diversi. Sentendosi inascoltate, secondo Zhang, “hanno solo bisogno di esprimere quello che provano infondo al loro cuore.”
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.