Secret City è una serie distribuita in Italia da Netflix nel 2018, ma già andata in onda nel 2016 su Showcase. Si tratta di una fiction che ha come protagonisti la Cina e l’Australia, e più in particolare la pressione che Pechino eserciterebbe su Canberra attraverso politici vicini alla Cina e l’intensa attività di intelligence dei cinesi in Australia.
La serie ha un buon ritmo, la trama ha la giusta dose di pathos trattandosi di una spy storyassociata a una sorta di House of Cards australiana; ma più di tutto, pur essendo uscita nel 2016, la serie è stata in grado di anticipare alcuni eventi più recenti della politica australiana. L’intreccio attorno al quale ruota la storia di Secret City, pur essendo fiction, è chiaramente ispirato ai tanti rumors sui sospetti che da tempo aleggiano in Australia, sulla capacità della Cina di influenzarne la politica. Ma alcuni passaggi della serie tv sembrano davvero essersi realizzati solo due anni dopo la sua distribuzione on line.
Nella fiction tutto ruota intorno alla capacità della Cina di influenzare la politica australiana attraverso un’attività di lobbying e le azioni del proprio team di intelligence nell’ambasciata australiana. In Secret City emerge una Cina capace di intrufolarsi fin nella vita più riservata dei ministri del governo australiano, di esercitare un potere talmente ampio da potersi garantire una sorta di sovranità, di sicurezza sul territorio australiano, anche riguardo i propri connazionali.
Una delle figure centrali è il ministro della difesa, il senatore laburista Paxton, sospettato dai suoi stessi colleghi di essere “l’uomo di Pechino”. Il Paxton di Secret City ricorda in modo inquietante Sam Dastyari, il senatore laburista australiano che proprio nel dicembre 2017 è stato costretto a dimettersi, a causa delle accuse per aver intascato fondi cinesi, al fine di aiutarne la politica in difesa dei propri interessi in Australia.
Ma le analogie non si fermano qui: nel maggio di quest’anno l’Australia è stata scossa da uno scandalo clamoroso che ha portato nel giugno all’approvazione di una legge nazionale contro le interferenze straniere; pur non essendo esplicitamente diretta contro Pechino, la legge guarda proprio alle mire cinesi. Secondo le agenzie, l’Espionage and Foreign Interference bill, presentata dal governo conservatore dopo oltre un anno di polemiche riguardo le presunte intromissioni di Pechino nella politica nazionale, ha ottenuto l’avvallo di maggioranza e opposizione, benché questo sia avvenuto al termine di discussioni che hanno infine portato a un’intesa per l’introduzione di 60 modifiche al disegno di legge originario.
Il premier australiano Malcolm Turnbull aveva presentato i provvedimenti promettendo che Canberra «non consentirà a Stati stranieri di usare le nostre libertà per erodere la nostra libertà». Per le agenzie di intelligence e spionaggio australiane si tratta di una delle più radicali modifiche alle proprie attività; cambiamenti che dovrebbero rafforzarne, secondo il primo ministro, «le capacità di lotta al terrorismo ed impermeabilizzarle da eventuali influenze politiche straniere».
Ma da dove nasce questa legge? Da un report richiesto dallo stesso primo ministro e prodotto, si dice, dall’intelligence israeliana, che dimostrerebbe la capacità della rete cinese a influenzare la politica australiana a tutto tondo, tanto in sede interna, quanto in sede internazionale o laddove la Cina abbia bisogno del sostegno di nazioni «amiche». Donazioni, finanziamenti a partiti e fondazioni, capacità di controllare i cittadini cinesi in Australia sospettati di essere in collegamento con dissidenti e analoghi controlli sui cittadini australiani in Cina (e chi ha visto Secret City a questo punto non potrà che stupirsi di fronte alle analogie).
Come riportato dalla stampa locale, infatti, Pechino ha finito per essere accusata — in Australia — di aver rapito dissidenti nel Paese, di aver esercitato influenze e restrizioni sulla stampa locale in lingua cinese; un parlamentare del partito liberale australiano, Andrew Hastie, ha fatto ricorso al suo privilegio parlamentare accusando un uomo d’affari cinese di alto profilo, Chau Chak Wing, di aver corrotto un funzionario di alto livello delle Nazioni Unite. L’imprenditore ha negato ogni contatto con Pechino ed ha annunciato denunce per diffamazione.
Inutile dire che nella vita vera, le relazioni tra l’Australia e la Cina, il principale partner commerciale di Canberra, sono in clamorosa crisi fin dal 2017, soprattutto a causa della decisione di Canberra di porsi contro la Cina per quanto riguarda il suo espansionismo marittimo cinese nel Mar cinese meridionale. Nonostante questo l’influenza cinese sull’economia australiana è in aumento: Canberra è al secondo posto per quanto riguarda gli investimenti cinesi dopo gli Usa (secondo uno studio della Università di Sidney e della società Kpmg).
Le ragioni di questa forza economica cinese, ancora profondamente radicata e probabilmente ancora viva anche sul fronte del soft power, nonostante la recente legge di Canberra, sono tante e forse sono state sintetizzate da una delle protagoniste di Secret City, una donna cinese: «abbiamo 4mila anni di storia, sappiamo come trattare i nostri nemici».
di Simone Pieranni
[Pubblicato su Eastwest]
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.