In un contesto lavorativo ancora complesso, in cui il tasso di disoccupazione giovanile non è sceso sotto al 17%, da mesi i giovanissimi cinesi condividono sul web le storie di come intendono “rettificare” il luogo di lavoro. Che hanno aperto un dibattito generazionale. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico.
Anche nell’anno appena concluso il web cinese ha continuato a ospitare discussioni sulle pratiche lavorative che interessano i “colletti bianchi”. Questa volta a prendere le redini della contestazione sono i nuovi lavoratori, quelli che lo scorso anno si sono affacciati su un mercato del lavoro sempre più in difficoltà nell’assorbire la crescente mole di neolaureati, che nel 2023 dovrebbero raggiungere la cifra record di 11,6 milioni. Dopo il picco dello scorso agosto, quando quasi un quinto dei cinesi di città nella fascia di età 16-24 era disoccupato, a fine anno il tasso di disoccupazione è sceso al 17%. Numeri ancora alti, che indicano come malgrado l’abolizione delle restrizioni Covid e la ripresa di shopping e viaggi, i giovani e i giovanissimi non possano ancora tirare un sospiro di sollievo.
“I nati dopo il Duemila rettificano il luogo di lavoro” (00后整顿职场 linglinghou zhengdun zhichang) è un hashtag comparso a maggio 2022 sulla piattaforma cinese di microblogging Weibo, che in poco tempo ha superato le 12 milioni di visualizzazioni. Ad oggi raccoglie ancora testimonianze di giovanissimi decisi a non accettare di svolgere straordinari non pagati e a opporsi alla tendenza che li vorrebbe accomodanti e compiacenti con il capo. Dopo oltre due anni di sforzi di rettifica nei confronti delle Big Tech a suon di multe e restrizioni proprio servendosi della retorica di regolamentare le condizioni interne, Pechino pare stia procedendo verso un rilassamento del controllo sul settore tecnologico. Ora è la cosiddetta “Gen Z” (Z世代, Z shidai) a farsi carico di correggere la condotta lavorativa delle grandi società del tech.
Un approccio più “attivo”
Un post di qualche mese fa ha riassunto così le responsabilità delle diverse generazioni in tema lavoro: “70后在任劳任怨, 80后在唯唯诺诺, 90后在浑水摸鱼, 00后负责重拳出击”. Quindi: “I nati negli anni Settanta lavorano senza lamentarsi, quelli degli anni Ottanta sono dei veri yes man (servili, accomodanti, pronti a dire sempre di sì al capo, ndr), i nati negli anni Novanta tentano di ricavare il meglio che possono da una situazione di crisi, e i nati nel Duemila sono quelli che dovranno colpire duro”.
I cinesi trentenni o quasi trentenni vengono descritti con una espressione che era diventata virale nel 2021: hunshui moyu 浑水摸鱼, che letteralmente significa “nelle acque fangose è più facile catturare i pesci”. Locuzione con cui gli utenti nati negli anni Novanta hanno promosso sui social media l’idea di ridurre al minimo le prestazioni lavorative, al fine di salvaguardare la propria dignità e la propria salute mentale. Alla generazione Z toccherebbe invece “attaccare”, abbracciando un approccio più attivo rispetto al “non fare” in ottica antilavorista promosso da un altro movimento di opinione del web, il tangping 躺平 (“sdraiarsi”).
Che i giovanissimi fossero consapevoli dell’esistenza di modalità con cui contrastare la cultura del troppo lavoro si era già visto a fine 2021, quando un gruppo di utenti nati tra il 1996 e il 2001 aveva creato su Github la campagna “Working Time”: dopo aver fatto esperienza di “straordinari molto diffusi e non regolamentati” durante tirocini curriculari in importanti società tech del paese, i giovani si erano mossi per mobilitare il web al fine di raccogliere e scambiare in forma anonima una serie di informazioni sulle grandi aziende. Il tutto per giungere preparati al fatidico momento della ricerca di lavoro.
La prima esperienza di Meng Ling, per esempio, non è andato benissimo. Pseudonimo di una 22enne della regione meridionale del Guangdong, lo scorso dicembre ha raccontato alla rivista Sixth Tone di aver accettato un lavoro in un’azienda di Shenzhen che prometteva una paga molto allentante, per poi ricevere come primo stipendio una somma ben inferiore a quella pattuita. Il capo si era giustificato spiegandole che non poteva aspettarsi un salario pieno vista la mancanza di determinate qualifiche. Ma invece che accettare un compromesso tutto sommato molto comune nelle dinamiche lavorative della Repubblica popolare, Meng Ling ha assunto un avvocato e ha obbligato il datore di lavoro a pagare circa 2 mila euro di danni. Ha persino raccontato tutto in un post su Weibo. In altri contenuti sul web gli utenti si vantano di aver fatto causa a svariate aziende nel corso degli ultimi mesi o di aver ridicolizzato il capo davanti a tutto il dipartimento. Il magico mondo dei meme, ovviamente, ha risposto con creatività.
Dibattito generazionale
Secondo i dati riportati dalla nota rivista economica Caijing, più della metà dei cinesi di città nati nel Duemila non sarebbe più disposta ad accettare gli standard lavorativi che hanno costituito la norma per le generazioni precedenti. Ma non mancano le critiche, alcune delle quali prendono di mira le conseguenze nefaste di azioni così irrispettose. Un articolo ha raccontato la storia di un’azienda che sarebbe stata costretta a chiudere dopo aver subito una denuncia da parte di un giovane candidato, scartato ancora prima del colloquio di lavoro per non aver inserito correttamente i dati personali nel modulo apposito.
Anche la televisione di stato CCTV ha commentato questa nuova tendenza: in un articolo dello scorso giugno si ammette la presenza di “cattive abitudini” in certi ambienti lavorativi, e si riconosce anche il “coraggio di difendere i propri diritti” dei giovanissimi, per poi procedere a rimproverarli per la loro “incapacità di adattarsi e di comunicare”. Rispetto alle generazioni precedenti, continua il commento, i post-Duemila di città vivono in un contesto privilegiato che consente loro di non preoccuparsi troppo a come sostenersi nell’eventualità che perdano il lavoro, grazie al sostegno economico della famiglia.
Secondo i detrattori, quindi, il fatto che non soffrano la “fame” di un tempo implica che le loro istanze siano inconcludenti: solo espressioni di una generazione viziata e arrogante, che potrebbe semplicemente rifiutarsi di fare gli straordinari per evitare che i datori di lavoro continuino a chiederglieli, invece che intraprendere azioni ben più gravi (rimandando, ancora, alla loro incapacità di “comunicare apertamente”). Nulla a che vedere, secondo alcuni, con le ribellioni delle vecchie generazioni, ai cui sforzi si dovrebbe riconoscere il raggiungimento della legislazione sul lavoro vigente.
Non affamati ma precari
Ma è proprio grazie al miglioramento delle condizioni di vita che ad oggi i giovani possono permettersi di abbracciare una visione diversa delle dinamiche lavorative e di non sentirsi obbligati ad accettare qualsiasi compromesso. Lo spazio per le rimostranze “fisiche”, inoltre, si è del tutto estinto con la leadership di Xi Jinping (come dimostra il fatto che le massicce proteste dello scorso novembre siano state messe a tacere nel giro di pochi giorni).
Oltre alle critiche mosse contro la sfacciataggine della gen Z, il web ospita anche numerose storie di precarietà odierna. Lo scorso anno il portale di notizie Sina ha riportato l’esperienza di una ventiseienne dello Hebei che pare non sia riuscita a trovare in quattro anni un impiego per più di 4 mila yuan al mese. Un bottino magro se paragonato allo stipendio di 6 mila yuan dei suoi genitori, entrambi dipendenti statali, e uguale alla pensione dei nonni.
Non è un problema solo per i giovani cinesi, ma anche per il Partito: la condizione di precarietà che affligge la classe media urbana rende inesistente l’idea di comprarsi casa e metter su famiglia. E, quindi, di contrastare la tendenza che, per la prima volta in quarant’anni ha visto lo scorso anno il numero dei decessi superare quello delle nascite.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.