La compagnia ha recentemente dichiarato di essere intervenuta per correggere casi in cui i fattorini sono stati erroneamente inquadrati come lavoratori autonomi, in linea con le nuove linee guida governative che promuovono maggiori tutele per le “nuove forme di occupazione”. Ma i colossi del food delivery e le aziende terze si servono di piattaforme specializzate nel lavoro flessibile per impiegare rider crowdsourced e abbattere i costi. Parte una nuova rubrica sul mondo del lavoro asiatico, a cura di Vittoria Mazzieri
Della mancanza di tutele legate alla professione del rider si discute già da un po’ in Cina. E sono sempre più diffuse le critiche strutturali alle pratiche di sfruttamento adottate dalle multinazionali del paese. Qualche settimana fa, ad esempio, in un articolo che esordisce con “Meituan è di nuovo nei guai!”, Hu Huacheng, personaggio mediatico e fondatore di una delle principali piattaforme HR della Cina, ha denunciato il colosso del food delivery per obbligare i rider a impostare profili aziendali, pena l’esclusione dall’app.
A settembre, la società ha ammesso la presenza di una fetta consistente di rider che figurano come lavoratori autonomi, alcuni dei quali però a causa della condotta di aziende partner che concludono con loro accordi “attraverso mezzi ingannevoli e coercitivi”. Si è quindi affrettata a precisare di essere intervenuta per correggere il loro status: “Quando si tratta di proteggere i loro diritti, abbiamo ancora grandi passi da fare”, si legge nella dichiarazione, che sottolinea poi la completa disponibilità di Meituan a seguite le recenti linee guida volte a promuovere maggiori tutele per le “nuove forme di occupazione”. Ele.me, la società con cui si riparte il 90% del mercato, si è affrettata a rilasciare una comunicazione simile.
Più che di contratti spesso stipulati per errore, tuttavia, pare che si tratti del perseguimento di un vero e proprio “modello di business individuale” (个体工商户模式) mirato ad abbattere i costi di gestione e i rischi legati all’impiego di una mole sempre crescente di fattorini. È quanto emerge dalle 57 pagine di un recente rapporto redatto dalla Beijing Zhicheng Migrant Workers Legal Aid and Research Center (BZMW), organizzazione no-profit fondata nel 2005 per fornire assistenza legale ai lavoratori a basso reddito. Dalle ricerche sul campo e dall’analisi di oltre 1.900 decisioni giudiziarie, l’ong ha rilevato oltre 1,6 milioni di fattorini registrati come lavoratori autonomi, su un totale di 7 milioni di individui impiegati in Cina nella consegna espressa di cibo.
La frammentazione giuridica gioca a sfavore del lavoratore anche e soprattutto in caso di dispute sul lavoro. Non di rado i tribunali si sono pronunciati a sfavore dei rider proprio per le difficoltà legate alla identificazione del datore di lavoro, ha spiegato il direttore Tong Lihua alla rivista economica cinese Caijing. Come quanto accaduto a Shao Xinuin, fattorino di Pechino rivoltosi alla BZMW due anni fa dopo un incidente durante una consegna per il quale non aveva ottenuto alcun risarcimento. Come in miriadi di altri casi analoghi, l’avvocato pro bono della ong Chen Xing aveva scoperto che nella busta paga dell’uomo erano coinvolte cinque società diverse, impegnata ognuna in specifiche attività quali gestione delle consegne, stesura delle buste paga e altre questioni burocratiche.
Dal 2015 le multinazionali cinesi hanno smesso di reclutare i rider tramite app e hanno esternalizzato la funzione di consegna a imprese terze sparse in tutto il paese. Molte di queste, a loro volta, non si sono limitate ad appaltare il servizio a lavoratori ingaggiati come autonomi, mediante rapida registrazione nell’app, ma hanno ridotto gli obblighi legali nei confronti dei fattorini rivolgendosi a piattaforme specifiche per i gig workers.
I siti specializzati nel lavoro flessibile sono emersi già una decina di anni fa, quando il settore del food delivery era strutturato secondo un modello tradizionale basato su contratti da subordinato, ritenuto “altamente inefficiente” vista la mutevole portata di ordini durante la giornata – quasi la totalità dei quali durante gli orari dei pasti. “Abbiamo visto un enorme spreco di manodopera”, ha detto al South China Morning Post Leslie Yu, amministratore delegato di Quhuo Limited. Fondata nel 2012 da alcuni ex dipendenti della DHL, Quhuo è una delle piattaforme specializzate nel crowdsourcing che mira a “migliorare l’efficienza della forza lavoro”, collegando lavoratori flessibili e aziende della platform economy. La società gestisce ogni mese oltre 40 mila utenti tra autisti di ride sharing, personale di servizio e responsabili della manutenzione in più di 70 città del paese.
Ma ci sono soprattutto addetti alla consegna di cibo, come dimostra il fatto che nel primo semestre dello scorso anno il 98% degli introiti totali della società – 940 milioni di yuan – proveniva dal settore del food delivery. Grazie a Quhuo “ho un reddito stabile e posso mantenere me stesso e i miei genitori. Posso permettermi l’affitto di un posto tutto mio invece che condividerlo con qualcun altro”, si legge sulla home del sito della società, nel riquadro dedicato alla personale esperienza di un rider di Pechino di 27 anni approdato nella capitale “per cercare opportunità per una vita migliore”.
Le piattaforme di crowdsourcing – tra le altre, la cinese Career International e Renrui Human Resources di Hong Kong – compongono un nuovo elemento della complessa struttura organizzativa tipica della gig economy, e hanno beneficiato enormemente della crescita del mercato del food delivery, che ad oggi conta 45 miliardi di dollari di fatturato e 500 milioni di utenti attivi. E a dimostrazione dell’utilizzo diffuso dell’alta tecnologia per funzioni di controllo e rating, le società costruiscono la loro infrastruttura tecnologica servendosi dei big data per monitorare le prestazioni di ogni lavoratore. Non solo: hanno anche sviluppato un algoritmo che permette ai manager di identificare con rapidità le criticità dei lavoratori. Se l’analisi mostra che un rider insiste a scegliere percorsi errati o poco idonei, il sistema raccomanderà all’azienda di organizzare per i lavoratori corsi di formazione online, o riservare alcune ore per l’affiancamento a colleghi più esperti.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.