Sfiduciati dai magri risultati raggiunti con le proteste tradizionali, da mesi i rider indiani condividono su Twitter aggiornamenti in tempo reale sulle difficili condizioni della professione. In un paese restio ad aggiornare la legislazione sul lavoro, i gig workers smentiscono le dichiarazioni delle società che operano nel settore e puntano a sensibilizzare l’unico attore che non rischia ritorsioni da parte delle aziende: il consumatore. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico, a cura di Vittoria Mazzieri.
“Con una chiamata, possiamo mobilitare migliaia di autisti e fattorini” ha detto di recente a Bloomberg Shaik Salauddin, presidente di due importanti sindacati a supporto dei gig workers indiani, il TGPWU, Telangana Gig and Platform Workers Union, e l’IFAT, Indian Federation of App Based Transport Workers. E farlo attraverso i social network è molto più semplice. Negli ultimi mesi attivisti e lavoratori del food delivery si sono mobilitati in numerose campagne di sensibilizzazione online per sfidare le due società che si contendono il mercato, Swiggy e Zomato.
La prima, fondata nel 2014 nella città meridionale di Bangalore, si vanta di riuscire a consegnare ben 43 biryani – il comune piatto a baso di riso, carne, verdure e spezie – al minuto. E di aver costruito, allo stesso tempo, un’attività “sostenibile”, come sostiene il CFO Rahul Bothr. Ma le alte prestazioni richieste e il trasferimento di gran parte delle attività gestionali a carico di algoritmi avanzati – che decidono l’assegnazione degli ordini e calcolano le tempistiche – generano una zona grigia in cui il lavoratore ha degli obblighi ben precisi ma non può beneficiare delle tutele da lavoro subordinato.
I rider, che figurano come “partner” delle società per cui lavorano, non hanno alcuna voce in capitolo sulle decisioni delle piattaforme in materia di organizzazione del lavoro. Se gli slogan delle società suonano come “Quanto guadagni dipende da te” e “Puoi scegliere di lavorare quando vuoi tu”, i lavoratori denunciano i faticosi sforzi a cui sono sottoposti per garantire il numero di ore di attività richieste, anche e soprattutto nei fine settimana, pena la declassazione tra i rider meno “utili” agli occhi dell’algoritmo. Una situazione ormai sotto gli occhi dell’opinione pubblica e a cui i media indiani hanno dedicato numerosi reportage, come quello sottoforma di graphic novel pubblicato nella rivista India Today dal nome “Delivery Status: Dangerous. Unboxing the World of Food Delivery”. Un fattorino di nome Mayank racconta la sua esperienza tra multe consistenti, prepotenze subite da clienti e ristoratori, turni di lavoro infiniti.
Problemi che diventano ancora più rilevanti alla luce del fatto che non si tratta, spesso, di un lavoro temporaneo e secondario. È quanto emerge da uno studio dello scorso anno, “Confronting Precarious Work. Beyond social security for platform workers”: delle 200 persone intervistate tra Bengaluru, Hyderabad e Kanpur, per una percentuale che va dal 75 al 90% il lavoro nel food delivery è l’unica fonte di guadagno.
Fattorini in protesta “fisica”: la mancanza di uno spazio condiviso e le difficoltà legate al Covid-19
Nel 2020, malgrado un calo degli ordini durante il primo periodo di lockdown e una contrazione generale dell’economia del 7,7%, le società del food delivery hanno riportato una costante crescita dei profitti. Swiggy è passata da 30 milioni di ordini al mese nel gennaio 2019 a quasi 45 milioni nel 2021. Zomato, fondata nel 2008 a Gurugram e operativa in 24 paesi, ha dichiarato di aver consegnato tra aprile 2020 e marzo 2021 circa 239 milioni di pasti.
Una crescita che non ha comportato vantaggi in termini economici e gestionali per i lavoratori a basso reddito. Nel momento in cui le stesse piattaforme si sono accodate alle direttive governative consigliando di restare in casa, gli addetti alla consegna sono stati obbligati a operare in condizioni spesso precarie, tra l’assenza di dispositivi di sicurezza e i forti rischi legati alla consegna last mile – quella a domicilio, per intenderci.
“Durante la quarantena, abbiamo consegnato gli ordini ai pazienti Covid e abbiamo rischiato la vita per farlo. Pensavamo che Swiggy si sarebbe preso cura di noi”, ha raccontato un rider alla rivista indiana The Caravan. A esacerbare il loro senso di frustrazione, a maggio 2020, l’annuncio da parte società dell’intenzione di procedere con il licenziamento di 1.100 lavoratori, appena due giorni dopo la conferma da parte di Zomato dell’esonero del 13% del suo personale. Swiggy ha prima assicurato una copertura di almeno tre mesi di stipendio per tutti i lavoratori colpiti, per poi ad agosto apportare modifiche alla struttura salariale in quattro città, Delhi, Chennai, Hyderabad e Kolkata: i lavoratori hanno denunciato una riduzione della tariffa di consegna degli ordini entro un raggio di quattro chilometri da 35 rupie (0,47 dollari) a 15 rupie (0,20 dollari).
Per i fattorini di Delhi si è trattato del secondo taglio salariale nel giro di sette mesi. In seguito alla prima modifica comunicata nella terza settimana di febbraio, due fattorini, Manoj Kumar e Virendar Singh, avevano creato un gruppo Whatsapp di soli lavoratori con l’obiettivo di creare una rete di solidarietà e contrastare le decisioni della società. Un gruppo di circa cinquecento rider si era di fatto riunito fuori dalla sede di Swiggy a Malviya Nagar, a sud della città, ma al termine della protesta, due giorni dopo, il gruppo aveva già perso molte reclute, intimidite dalle minacce di licenziamento da parte della direzione. Tra questa e gli addetti alle consegne “non c’erano canali di comunicazione” e mancava, come ha scritto l’autore dell’articolo di The Caravan Nishant Kauntia, “un processo decisionale centralizzato tra i lavoratori”.
Per far fronte alla necessità di una maggiore organizzazione, ad agosto 2020 è nata la All India Gig Workers Union (AIGWU) su iniziativa del CITU, Centre of Indian Trade Union, sindacato nazionale affiliato al Communist Party of India. Grazie alla sua mediazione, i fattorini hanno risposto ai nuovi tagli con proteste in tutte le città coinvolte, partecipate anche dai lavoratori del tech affiliati alla All India IT & ITES Employees Union (AIITEU). A Peoples Dispatch uno dei membri ha spiegato di non volere che il suo lavoro su software e algoritmi sia usato per limitare la paga dei lavoratori gig.
Durante le manifestazioni Swiggy si è affrettata a rispondere di aver modificato solo uno dei sette parametri su cui viene calcolata la paga, tra cui figurano la distanza percorsa e il tempo di attesa. E, inoltre, di aver provvisto ad aumentare il salario medio dei “partner” di circa il 20%, una misura che consentirebbe ai lavoratori full-time di guadagnare non meno di 20.000 rupie al mese.
Quest’anno, anche Zomato ha modificato l’algoritmo senza preavviso: ha esteso l’area di consegna da 10 a 40 km, comportando danni reali per i lavoratori, in particolar modo per i cosiddetti cycle ID, quelli che consegnano ordini muniti di bicicletta. Per alcuni ha significato dover consegnare nelle lontane periferie della città, dove sono stati vittime di furti di telefoni e veicoli. Andare più lontano significa riuscire a portare a termine meno ordini nel corso della giornata, riducendo il potenziale di guadagno. L’escamotage, hanno svelato alla rivista Rest of World alcuni lavoratori, è quello di spegnere il GPS prima dell’assegnazione di un nuovo ordine e riaccenderlo solo una volta tornati alla posizione di partenza, per evitare di essere inviati ancora più lontano. Ma il tempo trascorso con il GPS spento non è considerato tempo lavorativo.
Contro le nuove misure imposte dalla società, il 30 settembre scorso una sessantina di fattorini della società si è riunito sul marciapiede di Jeevan Bima Nagar, una delle strade più trafficate del centro di Bangalore. Dopo alcuni scontri tra manifestanti e polizia, Zomato ha risposto con il reintegramento del chilometraggio massimo originario, ma solo per chi lavora con l’azienda da oltre tre anni. Una decisione che lascia i nuovi rider, e tutti coloro registratisi durante la pandemia, alla mercè delle nuove pratiche di sfruttamento. Già mesi fa l’azienda era stata criticata per essere finita all’ultimo posto di una classifica stilata sulla base delle condizioni di lavoro dei dipendenti e dei collaboratori delle startup indiane.
Da parte loro, le società hanno dichiarato in più occasioni di aver ascoltato le lamentele dei propri “partner”. Avrebbero anche fornito “regolari rimborsi per maschere riutilizzabili” e garantito una copertura medica per i costi di ospedalizzazione per rider e autisti positivi al Covid, soprattutto con la totale ripresa dei servizi malgrado la disastrosa situazione pandemica dei primi mesi del 2021. Ma non sono stati rari casi come quello di Murali Mohan, autista a Hyderabad per la società leader del settore del ride-hailing indiano Ola. Finito in ospedale lo scorso maggio dopo aver contratto il virus, ha denunciato l’assenza di qualsiasi sostegno economico promesso dal suo datore di lavoro.
La grande mole di ordini, inoltre, ha costretto Singh – nome di fantasia – a tornare a consegnare ordini per Swiggy già l’indomani del decesso della madre per Covid. Alla rivista Entrackr, che segue gli sviluppi del settore tech indiano, il rider ha riferito che né lui né i suoi colleghi hanno beneficiato delle nuove misure entrate in vigore nell’azienda proprio in quei giorni, sull’introduzione della settimana lavorativa di quattro giorni. Singh si è lamentato di essere “altamente sostituibile e di conseguenza usa e getta”, come tutti i suoi colleghi.
Operazione “smentire le piattaforme”
Nell’ultimo anno i rider hanno approfittato di uno strumento “democratico” e accessibile come i social network – e, inoltre, già ampiamente utilizzato dalle società coinvolte – per sfidare le piattaforme e smentire i loro tweet carichi di buoni propositi e promesse non mantenute.
Delivery Bhoy è un account anonimo che si è registrato su Twitter lo scorso maggio ed è passato da 20 a 20.000 follower in poco più di una settimana. Ha raccontato di essere uno dei tanti ex colletti bianchi licenziati durante la pandemia ad essersi rivolti alla gig economy, mossi dalla disperata ricerca di un lavoro facile e che permettesse guadagni immediati. Alle domande che molti giornali hanno rivolto a lui e a un altro profilo anonimo molto attivo, Swiggy DE, sulle motivazioni dietro alla scelta di esporsi in tal modo su Twitter, entrambi hanno tirato in ballo un profondo scetticismo nei confronti degli scioperi tradizionali.
Vista la grande quantità di manodopera a disposizione, le piattaforme possono permettersi di perpetrare un clima di tensione fondato su punizioni e minacce. Non è raro che i lavoratori che si espongono con lamentele nei gruppi di lavoro vengano ripagati con la cancellazione dell’account. “Se protestiamo è probabile che perdiamo il lavoro”, ha detto a China Files un altro fattorino anonimo, registrato su Twitter come SwiggyDe Mumbai. Ha raccontato di lavorare per Swiggy da oltre tre anni: “I prezzi della benzina stanno aumentano rapidamente ma la tariffa è la stessa da 4 anni”.
Quello del carburante è uno dei problemi che hanno causato maggiore scontento nei primi mesi del 2021, quando in alcune città il prezzo della benzina ha raggiunto le 100 rupie al litro. Swiggy e Zomato si sono affrettate ad assicurare di aver aumentato di circa il 7-8% le entrate degli addetti alla consegna mediante l’introduzione di una “distance pay”, considerata tuttavia insufficiente dall’unanimità dei profili dei rider. Ma incentivi di questo genere potrebbero servire a integrare la magra paga di base che attualmente si attesta sulle 20-25 rupie per i primi 5/6 km, con un’aggiunta di 5 rupie per ogni km in più. Spesso, tuttavia, le società non rispettano le promesse. Il giugno scorso Swiggy DE ha contestato al colosso del food delivery di aver promesso un bonus per le ore di punta, salvo poi specificare, nella stessa comunicazione, che si trattava solo della fascia oraria 18.30-22.30.
Le piattaforme promettono anche degli incentivi su base giornaliera, che però sono difficilissimi da ottenere. Swiggy, ad esempio, garantisce un bonus di 100 rupie al raggiungimento di un guadagno giornaliero di 300 rupie. Ma, e qui risiede il problema, ci riferisce in questo caso a rider part-time – coloro che devono garantire turni di almeno sei ore. A un lavoratore a tempo pieno viene richiesto di guadagnare almeno 575 rupie, lavorare non meno di dodici ore ed essere loggato obbligatoriamente nelle ore di punta. Zomato, da parte sua, pare abbia addirittura garantito una paga minima che va dalle 4.000 alle 5.000 rupie a settimana. Peccato che per assicurarsela serva lavorare un minimo di sessanta ore settimanali.
Alla luce della maggiore consapevolezza pubblica raggiunta grazie alla costante condivisione di aggiornamenti, screenshot e meme, un portavoce di Zomato a luglio ha dichiarato che la società crede fortemente nella libertà di espressione e accoglie “qualsiasi feedback costruttivo, anche se proviene da account anonimi”. La retorica nelle campagne pubblicitarie è cambiata in fretta: i fattorini sono divenuti “eroi” in prima linea, lavoratori essenziali pronti a sfidare il Covid, o a cui riferirsi con il ben più frivolo “hunger saviours”. I vari tweet dei fattorini si propongono anche di smascherare i tentativi delle società di presentarsi agli occhi dei clienti come ottimi datori di lavoro, come “marchi cool e progressisti che non si sognerebbero mai di trascurare i loro hunger saviours, malgrado le crescenti prove del contrario”.
Intanto, l’attivismo online ha portato alla crescita di tweet da parte di clienti consapevoli e alla nascita di forum e approfondimenti da parte di riviste online, come nel caso di Citizen Matters, che in un articolo ha raccolto le domande rivolte su Twitter ad attivisti come Delivery Bhoy e Swiggy De, o a accademici e studiosi, allo scopo di comprendere le dinamiche interne della professione.
Ma finora le richieste di maggiore trasparenza e chiarezza sono rimaste il più delle volte inascoltate, e le società tirate in ballo nei tweet si sono limitate a rispondere con messaggi preimpostati pubblicati dagli addetti al costumare care che invitano a formulare le lamentele in forum appositi.
Il ruolo dei sindacati e i limiti della legislazione attuale
La pubblicazione dei tweet si è così diffusa e ha dimostrato un successo tale da spingere l’IFAT e lo TGPWU a lanciare sessioni di formazione in diverse città al fine di insegnare ai rider l’uso dei social media “per condividere la loro esperienza lavorativa”. Con il supporto di un altro sindacato, l’IFT, Internetional Transport Workers Federation, durante il lockdown del 2020 l’IFAT ha condotto interviste a più di 5.000 gig workers in cinquanta città. È emerso che in tutti i settori gig i lavoratori hanno sofferto un consistente calo dei guadagni, e non hanno beneficiato quindi dell’aumento di profitti e investimenti delle società che operano mediante app.
In più occasioni queste aziende sono state lodate per aver “rivoluzionato il mercato del lavoro” e aver contribuito ad assorbire la disoccupazione. Ma milioni di lavoratori insoddisfatti possono costituire un problema, soprattutto viste le mancate promesse dell’amministrazione di Narendra Modi. Nel 2020 è stato approvato un pacchetto di riforme del diritto del lavoro che, come dichiarato lo scorso febbraio dal ministro delle finanze Nirmala Sitharaman, dovrebbe estendere anche ai lavoratori gig i benefici dell’assicurazione sociale, incluse le pensioni di anzianità e l’accesso al sistema sanitario.
Dal nome Social Security code, le nuove misure prevedono che le aziende che operano nella gig economy destinino l’1-2% del loro fatturato annuale o il 5% dei salari erogati ai lavoratori della piattaforma a un fondo di sicurezza sociale. Il 13 dicembre scorso, a questo proposito, la Corte Suprema dell’India ha accolto una petizione per incalzare le istituzioni a mettere in pratica le misure proposte e per riconoscere i lavoratori gig come “lavoratori dipendenti” a tutti gli effetti.
Ad agosto è stato creato il portale e-Shram, un database nazionali dei cosiddetti “lavoratori non organizzati”. Al 14 dicembre scorso figuravano registrati circa 720 mila lavoratori gig, su un totale stimato di 15 milioni. Un passo volto al riconoscimento della categoria, che però non sta contribuendo alla risoluzione del problema più tedioso: la totale assenza di tutele.
Di Vittoria di Mazzieri
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.