Da oggi le azioni delle Poste giapponesi, una delle holding pubbliche più importanti del Sol Levante, sono sul mercato azionario di Tokyo. Si tratta di un’ operazione di mercato dal valore di oltre 120 miliardi di dollari, l’offerta pubblica iniziale sul mercato finanziario nazionale più grande dal 1987. Con la privatizzazione delle Poste, Tokyo cerca di ridare slancio all’economia nazionale. Per gli habitué degli uffici postali italiani, andare in posta in Giappone è un piacere. Pochissima o nessuna coda, impiegati cordiali e affabili, una vasta gamma di prodotti e servizi a disposizione del cliente. Oltre a spedire cartoline, pacchi e altri prodotti postali in Giappone o dall’altro capo del mondo, pagare le bollette e fare due chiacchiere con gli sportellisti, alle Poste giapponesi si può aprire un conto in banca, o una polizza assicurativa.
Dal 1875 le Poste sono un’istituzione con la “I” maiuscola. Non a caso, in Giappone, esiste un carattere tutto loro, 〒, una sorta di T maiuscola apposta su tutti gli uffici e le cassette delle lettere sparse nell’Arcipelago.
La messa in vendita sul mercato finanziario di azioni per un valore di oltre 1,3 mila miliardi di yen (circa 10 miliardi di euro) il prossimo 4 novembre della holding e delle sue due controllate (Japan Post Bank e Japan Post Insurance), al momento al 100 per cento in mano pubblica, fa molto discutere da quasi un anno: una privatizzazione così non si vedeva da quasi trent’anni.
Nel 1987, poco prima dello scoppio della bolla economica i cui effetti riverberano nella stagnazione economica che il Giappone vive ancora oggi, venivano messe sul mercato finanziario le azioni della Nippon Telegraph and Telecommunications (Ntt), in quella che è ricordata come la più vasta Offerta pubblica iniziale (Ipo) — 2,4 mila miliardi di yen, circa 18 miliardi di euro — della storia giapponese.
Ma non è solo il confronto con l’altro colosso parastatale — che di fatto controlla il settore delle telecomunicazioni in Giappone ed è il terzo operatore nel mondo per dimensioni — a rendere questa nuova privatizzazione storica. È la sua portata in termini di dimensioni e aspettative a lei connesse a renderla unica.
Con i suoi oltre 195mila dipendenti e 24mila uffici — alcuni dei quali, soprattutto a Tokyo, aperti 24 ore su 24, anche nei giorni festivi — le Poste giapponesi sono il primo datore di lavoro del Sol Levante, nonché proprietarie al 100 per cento delle azioni della più grande banca del mondo — la Japan Post Bank, Yūcho ginkō in giapponese — che gestisce un terzo del totale dei risparmi dei giapponesi e della principale compagnia assicurativa nazionale — la Japan Post Insurance, o Kanpo seimei.
Primati guadagnati con politiche estremamente vantaggiose per i risparmiatori — ad esempio, il conto postale non ha spese di gestione — e gli assicurati — i premi assicurativi sono più convenienti delle assicurazioni private. Basti pensare che secondo dati risalenti al 2005, oltre l’85 per cento delle famiglie giapponesi usufruiva dei servizi bancari e il 60 per cento delle assicurazioni delle Poste nipponiche.
Proprio in quell’anno, il governo Koizumi fece della privatizzazione dell’azienda una battaglia politica, sciogliendo le camere e chiamando gli elettori al voto anticipato; ebbe ragione, facendo passare la legge che riorganizzava il gruppo costruendo le basi per la privatizzazione. Fu poi a ottobre del 2007 che il gruppo venne riorganizzato come società per azioni. La privatizzazione fu però stoppata nel 2009 con la fine della supremazia del Partito liberaldemocratico, oggi con Shinzo Abe nuovamente al governo, e la nomina di un’amministrazione del Partito democratico, oggi prima forza d’opposizione.
Un secondo motivo per cui la privatizzazione delle Poste è osservata speciale è l’effetto che questa potrebbe avere sul mercato azionario e sull’economia giapponesi. Molti, come Hideki Ide professore onorario dell’università Keio di Tokyo, sperano che la privatizzazione non solo renda più efficiente e più innovativo (ad esempio con l’allargamento dei servizi online) il servizio delle Poste e, di conseguenza, contribuire alla rivitalizzazione dell’economia nazionale.
Altri, come dipendenti e sindacati, temono ulteriori chiusure di uffici postali in tutto il territorio nazionale, licenziamenti e precarizzazione del lavoro. C’è poi il rischio, come sottolinea il magazine Business Journal, che saranno le banche e gli operatori incaricati di gestire gli acquisti dei titoli — di mezzo ci sono operatori leader del mercato dei servizi finanziari in Giappone e nel mondo, come Sumitomo Mitsui, Mitsubishi UFJ o Goldman Sachs — a guadagnarci su.
Un terzo motivo si trova nel fatto che la privatizzazione delle Poste è l’ennesimo banco di prova della "abenomics", la politica economica aggressiva del premier giapponese, come aveva spiegato alla stampa a gennaio anche Taizo Nishimuro, un passato ai vertici di Toshiba, oggi presidente delle Poste giapponesi e consigliere del governo.
Tokyo ha deciso di mettere sul mercato un’azienda di stato con i bilanci in passivo nel tentativo di ridurre il debito pubblico, il più grande tra i paesi industrializzati, e di favorire la ricostruzione delle aree colpite da terremoto e tsunami del 2011 — che, per inciso, hanno avuto un forte impatto sulle Poste stesse — mettendo mano ai risparmi di milioni di cittadini. E per fare ciò ha deciso di aumentare all’80 per cento la quota di mercato riservata agli investitori nazionali. Secondo un analista interpellato da Reuters, la strategia del governo "è destinata ad attirare nuovi investitori".
È soprattutto al popolo di piccoli risparmiatori della Japan Post Bank che Tokyo si rivolge per trasformarli in un popolo di investitori: è questo l’esperimento della abenomics. Basta fare le formiche diligenti. Ora è tempo di fare le cicale.
[Scritto per East online; foto credit: wsj.com]