Da un anno alcune grandi aziende giapponesi sono tornate nel mercato delle forniture belliche. Il percorso sembra essere però tutto in salita: bisogna trovare commissioni e costruire una rete globale che al momento manca. Al contrario della concorrenza. Una delle poche foto disponibili di lui online lo ritrae come un comune salary man, in completo e borsa di pelle, come se ne vedono tanti in giro per il Giappone. Toru Hotchi, però, non è un comune impiegato. Per prima cosa perché i suoi interlocutori sono alti ufficiali di eserciti e marine straniere. In secondo luogo perché da circa un anno è uno degli uomini di punta del ministero della Difesa giapponese.
Ufficialmente, il suo incarico è direttore della divisione per gli armamenti. Nella pratica, il suo ruolo è fornire una sorta di “servizio clienti” per le armi, facendo ispezioni e offrendo consulenza ai possibili acquirenti asiatici – con un occhio di riguardo al Sudest – di prodotti di settore made in Japan.
Ad aprile del 2014, il governo giapponese ha rivisto i «tre principi fondamentali sull’esportazione di armi» trasformandoli nei «tre principi sul trasferimento di equipaggiamento militare». Stando a quanto pubblicato dal ministero della Difesa, Tokyo esporterà solo ai Paesi che risulteranno avere una «gestione appropriata» dell’equipaggiamento richiesto.
Le forniture saranno infatti legate a obiettivi specifici e concesse solo dopo attente indagini e controlli da parte dei funzionari giapponesi. Ogni violazione degli accordi presi comporterà la fine della fornitura.
La fine del bando autoimposto dal governo Sato nel 1967 e rivisto poi a distanza di nove anni era stata paventata nel 2013 dall’allora ministro della Difesa Itsunori Onodera.
L’ex titolare del Boei-sho si era espresso molto chiaramente dichiarando, a settembre di quell’anno, che il Giappone era escluso dalla competizione mondiale per gli equipaggiamenti militari. Di lì a poco sono arrivate la decisione del governo e il ritorno delle grandi aziende giapponesi – Mitsubishi e Kawasaki Heavy Industries in primis – sul mercato delle forniture belliche.
La mossa ha subito attirato l’attenzione di alleati e possibili clienti. A maggio del 2014, i rappresentanti delle aziende nipponiche sono al padiglione giapponese a Eurosatory, fiera europea degli armamenti. È solo l’inizio.
A luglio Tokyo, attraverso il Consiglio di sicurezza nazionale – un organo fortemente voluto dal Primo ministro Shinzo Abe per assicurarsi una gestione centrale delle politiche di difesa – dà il via libera all’esportazione di componentistica per i sistemi missilistici terra-aria Patriot in dotazione alla difesa Usa e a ricerche congiunte con il governo britannico per le tecnologie di seeking per missili aria-aria. La speranza è che il progetto, che vede coinvolta anche l’Unione europea, porti allo sviluppo di una tecnologia da utilizzare sugli F-35.
Un paio di mesi più tardi ecco un secondo annuncio: l’Australia dichiara interesse per i sottomarini Soryu, mezzi da oltre 4 mila tonnellate a motore ibrido diesel-elettrico con un’autonomia fino a due settimane di navigazione. Un accordo dal valore compreso tra i 15 e i 40 miliardi di dollari, che di recente è stato difeso dal governo di Canberra, interessato a rinnovare la propria flotta e a tenere il passo con i vicini.
L’Australia sembra infatti intenzionata a proporsi come “potenza di contenimento” nella regione dell’Asia-Pacifico dove, entro il 2030 – stimava qualche tempo fa il Wall Street Journal – ci sarà più della metà dei sottomarini del mondo.
Al di là dei piani di ammodernamento degli apparati di difesa di Malaysia, Indonesia e Singapore, citati ancora dal quotidiano economico Usa, va ricordato lo sforzo dell’India. A febbraio, Delhi ha approvato un aumento dell’11 per cento nel suo budget per la difesa, che è salito a 40 miliardi di dollari, un primo assaggio dei 150 che ha in piano di spendere da qui al 2027.
Ed è proprio ai paesi emergenti come l’India e i paesi dell’area Asean – Filippine e Indonesia su tutti – che il Giappone punta per assicurarsi commissioni pesanti.
Lo svantaggio da colmare rispetto ad altri attori regionali è però pesante.
La Corea del Sud, in particolare, attraverso le sue grandi corporation (come Hyundai, Daewoo e Samsung) è riuscita a mettere in pericolo il quasi monopolio Usa nel settore, offrendo forniture a prezzi molto più concorrenziali. Il ritorno del Giappone nel mercato globale di armamenti può anche essere letto in questa chiave. E almeno nelle intenzioni sembra andare nella direzione del rafforzamento della cooperazione con gli alleati storici, come Usa e Regno Unito.
Con Londra l’intesa è stata sottolineata, lo scorso gennaio, da un summit 2+2 tra i ministri degli Esteri e della Difesa delle due parti. Durante i colloqui, si è parlato di una probabile fornitura di aerei da pattuglia costiera prodotti dalla Kawasaki e attualmente in dotazione alle Forze di autodifesa nazionale (Sdf) giapponesi.
Per i fornitori giapponesi c’è però un ostacolo. Essendo stati fuori dal mercato per lungo tempo, non hanno al momento la rete globale in grado di garantire i servizi cosiddetti after sale ai propri clienti. È proprio a questo fine che uomini come Hotchi, lavorando nell’ombra, possono diventare cruciali.
Ma il lavoro è di quelli lunghi e logoranti. E la corsa ad accaparrarsi clienti potrebbe rivelarsi troppo affrettata. Prima di correre, infatti – scriveva il Nikkei shimbun, principale quotidiano economico giapponese, «bisogna imparare a camminare».
[Scritto per Linkiesta; foto credit: ap-perspective.blogspot.jp]