Alla fine della Seconda guerra mondiale, il Giappone si presentava al mondo come un paese ferito, prostrato, sventrato. Ma con un nuovo volto. Non più quello minaccioso dei kamikaze, quanto invece quello del pacifismo sancito dalla nuova Costituzione (dettata, praticamente imposta, dai vincitori americani tramite il Generale McArthur). Così è stato per lunghi decenni. Oggi, però, il mito post-bellico del pacifico Giappone è in declino. Dove sta andando il paese sotto la guida di Shinzo Abe?
Sono in molti a chiederselo negli ultimi mesi. Shinzo Abe – dopo un’esperienza breve e travagliata come premier nel 2006 – è ritornato alla guida del paese nel dicembre 2012 e, diversamente da quanto accaduto in passato, stavolta sembra intenzionato a rimanere saldo al potere a lungo. Nel primo anno del suo mandato la sua politica economica – la cosiddetta Abenomics – ha alimentato il dibattito sui media internazionali, facendo intravedere la speranza di risveglio per un paese anziano e dall’economia stagnante.
In tempi più recenti, invece, l’attenzione si è concentrata su alcuni provvedimenti e su alcune azioni che hanno riattizzato le braci morenti del nazionalismo nipponico. Non che sia stato un colpo di testa: Abe aveva già una discreta reputazione in tal senso. Certo però che il modo in cui ha affrontato alcune questioni scottanti – la contesa con la Cina per le isole Senkaku, le visite al memoriale di guerra di Yasukuni, il lungo silenzio sulla questione delle comfort women, il piano per rivedere l’interdizione per il Giappone di esportare armi – è stato significativo.
Procediamo con ordine.
La questione delle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi) va avanti ormai da decenni. Per il Giappone, in realtà, non è mai esistita, dal momento che le isole nel Mar Cinese orientale sarebbero state da sempre parte integrante del territorio giapponese. A scanso di equivoci, comunque, nel 2012 il governo ne ha rilevato la proprietà da un privato cittadino giapponese e ha dispiegato delle navi a controllare la zona.
La disputa torna a farsi silenziosa, carsica, finché nel novembre del 2013 la Cina non impone delle restrizioni sullo spazio aereo delle Senkaku.
Comincia così un botta e risposta tra i due vicini che mai si sono amati: Abe a dicembre visita il tempio di Yasukuni, ovvero il memoriale per i caduti del Secondo conflitto mondiale – dove sono sepolti anche alcuni criminali di guerra. È questo un gesto vissuto come provocazione da tutte le vittime dell’imperialismo giapponese – non solo cinesi ma anche coreani e filippini – ma a cui Abe non è nuovo: un’altra visita era avvenuta già nell’ottobre 2012.
Non è banale dirlo, visto che negli ultimi anni quasi tutti i leader avevano accuratamente evitato Yasukuni per non urtare la suscettibilità altrui. Lo stile di Abe, però, è diverso: da sempre spende parole per sostenere la necessità di una revisione della Costituzione o per modificare in senso più favorevole all’imperialismo i libri di testo giapponesi. Secondo Akio Takahara, professore di relazioni internazionali e giurisprudenza presso l’Università di Tokyo, intervistato dal Guardian: “Abe è un revisionista nel suo profondo, un nazionalista che persegue una nuova forma di nazionalismo”.
Nel gennaio 2014, parlando davanti al Forum economico di Davos, Abe ha di nuovo allarmato gli astanti paragonando le attuali tensioni tra Cina e Giappone a quelle tra Gran Bretagna e Germania di inizio XX secolo, cioè quelle che condussero alla Prima guerra mondiale.
Abe non è un beniamino neanche dei coreani, probabilmente. Nel 2007 il premier liquidò la questione delle comfort women – le donne obbligate alla prostituzione nei bordelli militari giapponesi, per lo più sequestrate dalla Corea, oltre che dalla Cina e dai paesi limitrofi – sostenendo che non c’era stata alcuna coercizione.
Abe ha sfidato la versione ormai condivisa anche nel suo paese, che portò alla famosa richiesta di perdono del capo cabinetto Yohei Kono nel 1993. Ma Abe è un leader che non ama piangersi addosso e, insolitamente per un giapponese, scusarsi. Deve quindi aver faticato non poco l’altro giorno, nel tentativo di rassicurare la Corea del Sud e i sempre più diffidenti alleati americani riguardo alla posizione ufficiale del governo sulle comfort women: la stessa delle amministrazioni precedenti, ha detto, con cui condivide il medesimo dolore e costernazione.
Anche se il New York times, malevolo, si domanda come mai ci abbia messo così tanto a confessarlo.
E non è finita. Recentemente il governo ha anche manifestato l’intenzione di modificare le restrizioni sulle esportazioni delle armi. Una scelta auto-imposta che deriva dalla cosiddetta dottrina dei Tre principi, adottata dalla Dieta giapponese nel 1967 e che sostanzialmente impediva al Giappone l’export militare ai paesi del blocco comunista, a quelli sottoposti a sanzioni Onu o coinvolti in conflitti internazionali.
In osservanza dello spirito pacifista, nei decenni successivi, i tre principi sono stati ulteriormente ampliati, diventando di fatto un divieto di export erga omnes. Ed è una questione che ha riguardato l’intero settore bellico – soffocando anche la progettazione di componentistica e la cooperazione in questo ambito con gli altri paesi (aspetto non trascurabile in un paese che del suo avanzamento tecnologico ha fatta un vanto e un marchio). Con un’unica – rilevante e sintomatica – eccezione: gli Stati Uniti, l’unico paese che può essere destinatario di tecnologie militari giapponesi in deroga ai Tre principi.
Il governo ha di recente aumentato il budget a disposizione della difesa – la prima volta in 11 anni – e ora procede con cautela su questo versante. Come spiega il quotidiano conservatore Yomiuri Shimbun, l’amministrazione ha presentato una bozza di revisione dei Tre principi che vorrebbe approvare entro questo mese.
A far riflettere su una possibile recrudescenza del militarismo hanno concorso anche le recenti elezioni per il governatore di Tokyo: pur non essendo risultato vincitore, il candidato dell’ultra-destra ha ricevuto un consenso inaspettato e per molti inquietante, piazzandosi quarto su 16 concorrenti, con più di 600.000 voti. Con Toshio Tamogami siamo ben oltre il nazionalismo – talvolta persino opportunista – di Abe.
Personaggio controverso, Tamogami è stato obbligato a lasciare il posto di Capo di stato maggiore dell’Aeronautica nel 2008 per le affermazioni poco ortodosse sulla Seconda guerra mondiale contenute in un pamphlet che esortava i concittadini a “riappropriarsi della gloriosa storia del Giappone”.
Durante la sua campagna elettorale, ha negato molte delle atrocità commesse dal Giappone, definendole menzogne fabbricate dai vincitori, ha chiesto di limitare l’immigrazione e sostenuto le più classiche battaglie del nazionalismo. Si è anche vociferato di un cripto-sostegno da parte di Abe, che però ufficialmente era dalla parte del poi eletto Yoichi Masuzoe.
C’è stato infine il fenomeno del film Eien no Zero (Eternal Zero) a fornire l’ulteriore riprova del fermento nazionalista in atto nella società giapponese. Zero era il nome del velivolo usato dai kamikaze giapponesi e il film racconta la storia di un gruppo di piloti nel corso delle loro missioni aeree contro la marina americana: sale prese d’assalto da kamikaze cinefili e spettatori (soprattutto i giovani) entusiasti.
Tra loro, non a sorpresa, il premier, che si è detto “commosso” dal film. Secondo The Economist la pellicola si avvia a diventare uno dei film giapponesi più visti di sempre.
Eppure sotto al desiderio di revanche del Giappone di Abe, si cela ancora una scorza di resistenza al militarismo, segno che historia magistra vitae resta pur vero: se non del tutto, almeno un po’. Secondo un sondaggio condotto a fine febbraio dall’agenzia di stampa Kyodo, infatti, circa il 67 per cento dei giapponesi sono contrari a una revisione delle restrizioni sull’export di armi.
Militaristi sì, ma con moderazione.
[Pubblicato su Pagina99; foto credit: blouinnews.com]
*Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello Yomiuri Shimbun, il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).