Giappone – Chichi Jima, l’isola degli occidentali

In by Simone

A Chichi Jima vivono oggi 200 Obeikei: sono i giapponesi dai tratti somatici occidentali, eredi degli scopritori dell’isola, una esigua minoranza sui 2000 abitanti. La storia dell’isola, contesa in passato tra Giappone e Stati Uniti, annovera comparse del calibro di Jack London e Bush senior.
Benché siano stati colonizzatori, anche gli occidentali possono essere una minoranza e sentirsi emarginati in quanto tali. Accade a Chichi Jima, in Giappone, una minuscola isola che fa parte dell’arcipelago di Ogasawara, collocata a nord della più famosa – almeno cinematograficamente – Iwo Jima.

I primi ad abitare Chichi Jima sono stati infatti dei non giapponesi. Nel 1827 il capitano Fredrick William Beechey sbarcò sulla fiorente isola, ma fu solo nel 1830 che un composito gruppo proveniente dalle Hawaii venne a stanziarsi qui: erano poco più di venti persone, fra americani, inglesi e qualche altro europeo (tra di loro anche un italiano).

Oggi il ricordo di questi pionieri sopravvive in gesti sporadici e impertinenti come quello di John Washington, che ogni mattina issa la bandiera americana sul tetto della sua pensione.

Lo racconta il New York Times in un articolo che descrive l’anomala condizione di un ormai esiguo drappello di indigeni occidentali – chiamati Obeikei – all’interno di un contesto sempre più uniformemente giapponese. È quasi il diario di una lenta e inevitabile estinzione, dovuta alla fuga dall’isola dei giovani e al progressivo scomparire degli anziani, con il loro bagaglio di abitudini e storia.

John Washington ha un nome che sembra già un programma indipendentista, pelle chiara e capelli biondi che vanno incanutendo: è il discendente di uno di quegli uomini che per primi sbarcarono su Chichi Jima: Nathaniel Savory. Il nome dell’isola al tempo era Peel e l’arcipelago si chiamava Bonin.

Ho la sensazione che tutto finirà con la mia generazione – dice – i giapponesi non insegnano ai ragazzi la storia delle isole Bonin, l’approdo di Savory: nascondono queste cose”.

Il racconto ufficiale ha cercato di affermare la tesi che l’isola fu originariamente scoperta nel 1593 da un samurai chiamato Sadayori Ogasawara, ma sia gli storici giapponesi sia quelli occidentali concordano quasi unanimemente sul fatto che Ogasawara non sia mai arrivato da quelle parti. Il passaggio al Giappone è avvenuto molto dopo, nel 1875, quando arrivarono dalla madrepatria forze nuove pronte a stanziarsi nell’isola.

Gli abitanti originari ormai sono ridotti numericamente a poco più di 200 individui – su un totale di circa 2000. L’economia locale attualmente si basa quasi esclusivamente sul turismo. Ma l’isola ha ricevuto visite di tutto rispetto nel passato: a cominciare dal Commodoro Perry, l’americano che forzò il Giappone obbligandolo all’apertura degli scambi.

Perry arrivò a Chichi Jima nel 1853 e, con un’operazione contestata, acquistò un appezzamento di terra proprio da Savory per farne un deposito di carbone del governo americano. Secondo David Chapman, professore di relazioni internazionali in Australia, sarebbe stata proprio la visita di Perry e l’ipotesi di trasformare Chichi Jima in un avamposto americano a destare le preoccupazioni per la prossimità degli stranieri e a risvegliare gli appetiti coloniali del Giappone.

Fu poi il turno di Jack London: nel 1893 compì un viaggio intorno alle Hawaii, alle Bonin, al Giappone e al mare di Bering. Al suo ritorno, dopo qualche mese, il racconto Storia di un tifone al largo delle coste giapponesi gli valse la pubblicazione sul Morning Call come miglior articolo descrittivo.

D’altronde, l’isola vanta un impressionante curriculum avventuroso tra scorribande di pirati, storie di tesori trafugati, di assassinii e cannibalismo. Non meno agitato fu il periodo a cavallo con la Seconda guerra mondiale: l’isola si trovò contesa tra Stati Uniti e Giappone e nel 1944, un giovane pilota della marina americana, George H. W. Bush (Bush senior, per intenderci) fu abbattuto a largo dell’isola e salvato da un sottomarino americano.

Questa fase fu complicata anche per gli Obeikei: benché integrati con i giapponesi, vengono in quel momento guardati con sospetto, trattati come spie. Poi Chichi Jima passa sotto il controllo americano; i giapponesi non possono tornare, gli Obeikei sì. Finché, nel 1968, l’isola viene restituita al governo giapponese e agli Obeikei viene data la possibilità di scegliere tra la cittadinanza americana e quella giapponese. Molti partono e lasciano Chichi Jima, in pochi restano.

Le tracce dei primi colonizzatori sono oggi sempre più rare. Un piccolo camposanto di tombe cristiane è uno dei pochi segni tangibili. La maggior parte dei discendenti che ancora parlano inglese e presentano fisionomie occidentali o polinesiane hanno più di 50 anni. Gli altri, quelli di origine giapponese, non si curano molto di questa storia ormai prossima alla scomparsa.

Anzi, alcuni rinfacciano una certa supponenza degli occidentali, come quella insita nel vezzo di usare sia nomi occidentali che giapponesi o il fatto di utilizzare ancora il dialetto derivato dai loro antenati. Il vice-sindaco di Chichi Jima non li considera come gli indigeni che hanno abitato l’isola centinaia di anni fa.

Dice che non è stato fatto alcuno sforzo di preservazione della loro cultura, ma che non sono nemmeno discriminati. Forse non saranno discriminati, ma certo talvolta si sentono marginalizzati, come spiega efficacemente Sutanrii Minami, 64 anni, che si chiama anche Stanley Gilley: “Mi chiamano straniero. Ma io non lo sono. Sono nato qui”.

Un amaro destino che, come si vede, può accomunare le comunità più disparate nella zone più diverse del mondo. A riprova che i concetti di identità e patria sono tutt’altro che stabili e condivisi.

[Foto credit: lettera43.it] [Scritto per Lettera43]

* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello "Yomiuri Shimbun", il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).