Il governo giapponese non nasconde la volontà di rivedere e normalizzare il sistema della difesa del Sol Levante. Una strategia che provoca reazioni contrastanti nell’amministrazione statunitense e diffidenza tra i Paesi vicini, memori del militarismo nipponico.All’inizio di marzo il governo nipponico annunciava la decisione di rivedere il bando alle esportazioni di armamenti. Di fatto si tratta di mettere mano ai cosiddetti “tre principi” enunciati nel 1967, che vietavano la vendita di armi a Paesi a guida comunista, coinvolti in conflitti o sotto sanzioni internazionali.
Col passare degli anni le regole erano tuttavia diventate un bando pressoché totale, con l’eccezione della cooperazione con gli Stati Uniti e con alcuni spiragli aperti nel 2011, tradotto in pratica in un ostacolo per le attività di società come la Mitsubishi Heavy Industries o la Kawasaki Heavy Industries.
Per l’esecutivo di centro destra guidato dal liberal-democratico Shinzo Abe, scrive il Financial Times, si tratta di uno modo per permettere al Giappone di partecipare a progetti multinazionali di nuova generazione. L’esempio più citato, sottolinea il quotidiano della City, è quello del progetto F-35, incluso nella lista delle eccezioni lo scorso anno.
La revisione prevede che i ministeri degli Esteri, della Difesa e del Commercio passino in rassegna le esportazioni di armamenti. Il Consiglio di sicurezza nazionale, organismo istituito lo scorso novembre sul modello di un analogo statunitense, avrà l’ultima parola. In linea di principio Tokyo dovrà fornire il proprio consenso nel caso le armi passino a un parte terza. Le linee guida prevedono inoltre che le esportazioni debbano essere nell’interesse nipponico e non porre rischi al mantenimento della pace e della sicurezza a livello internazionale.
Le discussioni sull’export di armi si inseriscono in un più ampio dibattito sulla volontà di Abe di normalizzare il sistema della difesa nipponico. Il primo ministro, tornato al governo con il voto di dicembre 2012, non fa mistero di voler rivedere la Costituzione pacifista imposta a Tokyo alla fine della Seconda Guerra Mondiale e in particolare l’articolo 9.
In questo contesto vanno lette anche la rivendicazione del diritto all’autodifesa collettiva, ossia la possibilità per le Forze di autodifesa di intervenire nel caso di attacco a un alleato e non soltanto se a essere bersaglio è il Giappone; gli aumenti nei bilanci destinati alla difesa e la pubblicazione a gennaio dicembre della National Security Strategy.
La strategia del governo nipponico si inserisce nel contesto delle tensioni nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese orientale che oppongono Giappone, Filippine e Vietnam alla Cina per la sovranità di isolotti contesi. Mentre crescono i timori per l’aumento della spesa militare cinese, che quest’anno farà registrare un più 12,2 per cento.
“I politici giapponesi, compreso il premier Abe, sentono il senso dell’urgenza. La Cina riempirà presto il vuoto di potere nell’Asia orientale causato dal graduale declino della superiorità statunitense nella regione. Questa è la principale regione della fretta dell’amministrazione Abe di accelerare lo sviluppo militare del Giappone”, ha spiegato Kosuke Takahashi ad AirPress. Il giornalista nipponico, collaboratore tra gli altri di Asahi Shimbun e di Jane’s Defence Weekly, continua nel sottolineare come questa strategia provochi comunque “reazioni contrastanti nell’amministrazione statunitense di Barack Obama”.
Da una parte, spiega, “vuole che Tokyo abbia un ruolo maggiore nella cooperazione sulla sicurezza tra Usa e Giappone. Allo stesso tempo Washington non vuole che i giapponesi provochino inutili frizioni con la Cina e la Corea del Sud in tema di sicurezza regionale e per quanto riguarda l’interpretazione della storia moderna”, in particolare sul ruolo del militarismo del Sol Levante nella prima metà del secolo scorso. In una situazione così “delicata”, conclude Takahashi, il primo ministro Abe punta a rivedere le linee guida della cooperazione nipponico-statunitense entro l’anno.
Come sottolinea Hitoshi Tanaka sull’East Asia Forum, riguardo l’interpretazione del dettato costituzionale e il via libera all’autodifesa collettiva “è importante che il governo spieghi chiaramente tanto ai propri cittadini quanto agli alleati e partner esteri il perché della necessità di tali cambiamenti e come siano parte di un progresso storico naturale delle politiche orientate esclusivamente alla difesa”.
Lo studioso nipponico ricorda come ogni riforma della politica sulla sicurezza di Tokyo rischia di incontrare la diffidenza dei Paesi vicini. In molti paventano un ritorno dei falchi, tuttavia visioni più moderate notano il contributo che eventuali cambiamenti potrebbero portare alla stabilità a lungo termine nella regione.
Tanaka individua due punti da tenere in considerazione. Il primo è capire come rivedere l’interpretazione della costituzione, che di fatto impedisce di esercitare l’autodifesa collettiva, possa influire sull’alleanza con Washington in termini di sicurezza regionale. In altre parole, scrive Tanaka, concentrarsi soltanto sul lato militare senza lavorare anche sul piano diplomatico potrebbe portare a contromisure dei paesi vicini. Ogni forma di rafforzamento deve perciò avvenire in modo “trasparente e calmo”.
Allo stesso tempo sia Tokyo sia Washington devono favorire il ruolo della Cina come attore responsabile nel contesto regionale. Il secondo punto sottolinea la necessità di dare una spiegazione “chiara e razionale” prima di eventuale cambi, così da garantire “l’integrità nazionale”.
“Ogni cambiamento riguardante la sicurezza nell’Asia del Nordest rende ancora più importante per il Giappone lavorare facendo affidamento su una strategia diplomatiche che si basi sullo spirito dell’articolo 9 della Costituzione”, si legge in editoriale del Japan Times, “Le basi di questo sforzo devono essere la capacità di evitare l’uso della forza e la determinazione a non provocare altre nazioni”.
[Scritto per AirPress. Foto credit: rt.com]