Se un tempo era considerato il piatto della classe operaia, dei lavoratori chiusi nei loro uffici fuori orario o, più prosaicamente, del postsbornia postkaraoke, negli ultimi giorni il ramen – spaghetti in brodo preparati nelle più disparate varianti regionali – è diventato simbolo della protesta politica contro il governo giapponese.Poco evidenziata dai media giapponesi mainstream, domenica 22 marzo si è tenuta a Tokyo una manifestazione contro l’attuale amministrazione del Paese del Sol levante sui temi di nucleare e riforma della costituzione pacifista giapponese. Prima del weekend, il Partito liberaldemocratico aveva infatti trovato un accordo con il Kōmeitō, suo alleato nella coalizione che ha la maggioranza dei seggi nelle due camere del Parlamento giapponese, sul cambio nelle politiche di sicurezza nazionale. L’accordo è il primo passo verso la conversione in legge di una nuova interpretazione delle “regole d’ingaggio” delle forze di autodifesa giapponese (SDF) approvata lo scorso luglio dal governo.
Un cambiamento radicale che andrebbe a scavalcare l’articolo 9 della costituzione che impedisce a Tokyo di avere un esercito “a tutti gli effetti” che possa essere impiegato fuori dal territorio nazionale. In caso di approvazione della legge, le SDF – a cui Abe recentemente si è riferito come “esercito” – potrebbero essere impiegate per salvaguardare l’autodifesa collettiva, in caso di attacchi a paesi alleati o in missioni di coalizioni internazionali.
Tra quanti domenica scorsa hanno pubblicizzato e sostenuto la manifestazione c’era anche un piccolo ristorante di Tokyo, il Men’ya Dogenbozu. Tramite l’account Twitter del locale è stata lanciata un’iniziativa a metà tra l’impegno politico e la promozione pubblicitaria: per quanti si sono recati al ristorante per una scodellata di carboidrati e proteine prima della marcia di protesta, è stata applicata una tariffa speciale, con offerte della casa a chi inveiva contro il primo ministro prima dell’ordine. Non era la prima volta che il proprietario del locale, Naoya Chikahiro, promuoveva un evento simile. “Tutto è iniziato due anni fa” – ha spiegato l’uomo al rotocalco Nikkan Gendai. “Da lì abbiamo continuato in diverse circostanze: prima con le tariffe speciali con le proteste antinucleare, poi con gli sconti durante le elezioni”.
Il profilo di Twitter del locale rivela un impegno politico e sociale diffuso dall’opposizione al governo alla denuncia del razzismo; in un altro tweet si legge infatti: “Ramen e razzismo non vanno d’accordo”.
“Ci sono state anche altre occasioni in cui abbiamo preso di mira il primo ministro Abe – prosegue Chikahiro – Allora le reazioni in rete si sono fatte più dure”. Subito dopo il lancio dell’iniziativa, racconta il settimanale, su Chikahiro sono piovute critiche e accuse di incitamento all’odio. Niente di tutto ciò, si difende il proprietario del ristorante. “Dall’11 marzo 2011 (giorno del triplo disastro del Nordest del Giappone), la gente arriva a Tokyo da tutto il Paese per manifestare. Non sono poche le persone che arrivano da Fukushima o Osaka solamente per questo motivo. La mia idea era solo quella di dar loro un po’ di sostegno”.
In totale domenica scorsa 14 mila persone sono scese in piazza, molti di loro – probabilmente – con una ciotola di ramen in pancia. Non una folla oceanica, ma pur sempre un segno di dissenso di cui tener conto.
I 14 mila di domenica 22 marzo sono infatti l’espressione di un’opposizione diffusa tra i cittadini giapponesi relativamente ai tentativi dell’esecutivo di aggirare la costituzione pacifista del 1947 e proseguire con un’agenda più “militarista” rispetto agli ultimi sei decenni.
Secondo un recente sondaggio del Nikkei Shimbun, principale quotidiano economico del Sol Levante, meno di un terzo dei giapponesi (31 per cento) sostiene il governo sulle ipotesi di una nuova legislazione in materia di difesa. D’altra parte, però, il tasso di gradimento generale dell’attuale governo di Tokyo rimane alto (51 per cento, in crescita di un punto rispetto al mese precedente), conseguenza della risposta per molti “convincente” alla crisi dei due ostaggi giapponesi in Siria.
Perde colpi, riporta il Wall Street Journal citando un sondaggio del governo di Tokyo, anche la “abenomics”, la serie di riforme economiche e fiscali avviata nel 2012 dal governo Abe, che sembra non impressionare più i giapponesi.
[Scritto per East online; foto credit: japantimes.com]