Giappone, il futuro dopo l’omicidio Abe

In Asia Orientale by Lorenzo Lamperti

Intervista sulle conseguenze dell’assassinio dell’ex premier a Marco Zappa, esperto di Giappone dell’Università Ca’ Foscari di Venezia

Marco Zappa, non è ancora chiaro il movente dell’omicidio dell’ex premier giapponese Shinzo Abe ma l’attentatore ha un passato di tre anni nella forza di autodifesa marittima. Che cosa ci può dire questo elemento?

Sì, ha prestato servizio per tre anni nel Jieitai ma è molto complesso cercare un legame tra la sua appartenenza al corpo e il suo odio o risentimento verso Abe o le sue politiche. Ovviamente si stanno subito diffondendo diverse teorie complottiste, da chi ipotizza un’origine coreana ad altre speculazioni su un piano per avere una sorta di agnello sacrificale, un eroe da santificare per accelerare processi di riforma che possano cambiare la postura di sicurezza giapponese. Io credo però che si debba restare ai fatti. E i fatti dicono che l’ex primo ministro più longevo del dopoguerra è stato ucciso durante un comizio. Si tratta di un fatto scioccante.

Scioccante anche il fatto che l’assassino abbia potuto sparare pressoché indisturbato.

Ha potuto arrivare a distanza di tiro e ha sparato senza che nessuno potesse intervenire. Ciò denota falle nel sistema di sicurezza. Questa tragedia porterà una stretta di tipo securitario su questo tipo di comizi elettorali. Non che le città giapponesi abbiano bisogno di ulteriori controlli di polizia, che sono già capillari.

L’attentato mette però in discussione la fama di paese sicuro che il Giappone ha saputo costruirsi.

Certo, sembra quasi un salto indietro al 1995 a uno dei primi veri attentati terroristici su una popolazione. Mi riferisco ovviamente all’attacco del 1995 alla metropolitana di Tokyo, evento che portò all’adozione di nuovi protocolli. Raramente in Giappone si sono verificati attacchi di questo tipo. Uno dei pochi casi è legato al nonno di Abe, Nobusuke Kishi, che sopravvisse a un accoltellamento alla coscia nel 1960 quando era premier.

Quali possono essere le conseguenze politiche della morte di Abe?

Il rischio è che tutti i problemi e le pecche di Abe vengano annacquate e dimenticate, sostituite da una nuova immagine di martire. Poi credo che i processi di riforma costituzionale possano essere accelerati. C’è una fazione che spinge per la riforma dell’articolo 9 che impedisce al Giappone di avere un esercito a pieno titolo. Fumio Kishida è più moderato di Abe e fa fatica ad avviare una riforma così radicale dell’impostazione della strategia di difesa nazionale e di postura di sicurezza in generale. Ci sono poi elementi più sistemici come il rafforzamento della partnership con la Nato in funzione anti russa e anti cinese. L’omicidio di Abe potrebbe essere il pretesto simbolico per portare avanti tutti questi processi, ma non credo che i tempi saranno rapidi.

Qual è l’eredità politica di Abe?

Abe ha lasciato un segno sotto diversi profili. La riforma del 2015 ha dato maggiore libertà d’azione alle forze di autodifesa nazionali in previsione di un dispiegamento al fianco degli Usa. Operazione che potrebbero non riguardare solo l’Asia-Pacifico. La sua concezione dell’Indo-Pacifico ha avuto un forte impatto sulle strategie americane. A livello interno ha avviato una reinterpretazione dell’articolo 9 della costituzione che ha portato a un accentramento all’ufficio del premier delle decisioni sulle politiche di sicurezza. L’Abenomics ha rilanciato per un breve periodo l’economia giapponese ma le riforme economiche non hanno avuto l’effetto sperato sul lungo termine, soprattutto per l’impatto del Covid che ha fermato il motore dell’economia giapponese. Proprio la fallimentare gestione del Covid rimarrà tra le pecche del governo Abe, insieme alla débacle delle Olimpiadi che è stato costretto a rinviare.

Sul web cinese diversi nazionalisti esultano. Il governo di Pechino ha invece espresso solidarietà. Come ha cambiato Abe i rapporti con la Cina?

Abe ha trattato la Cina in modo più aggressivo a livello verbale. Nel 2013 la visita al santuario di Yasukuni ha fatto innervosire i vertici di Pechino, dopo di che però ha agito in maniera abbastanza distensiva in virtù di un pragmatismo che esiste e deve esistere quando hai a confronto due economie totalmente interconnesse e che formano il cuore delle catene di valore del continente. Nel 2018 ha firmato l’accordo che ha trasformato la Cina in partner di sviluppo anche in ottica di cooperazione in paesi terzi, per esempio nel Sud-Est asiatico dove la competizione è molto accentuata. Le navi e gli aerei cinesi intorno alle Senkaku/Diaoyu hanno peggiorato i rapporti e la questione del Covid ha raffreddato tutto con la cancellazione della visita prevista di Xi Jinping. Nei mesi scorsi, Abe aveva dato disponibilità a ospitare testate nucleari americane, rompendo un tabù. E aveva invitato Washington ad abbandonare l’ambiguità strategica sul sostegno a Taiwan.

La posizione assunta da Tokyo, anche sotto la guida di Abe, sulla guerra in Ucraina ha fatto finire il Giappone ancora più nel mirino di Cina e Russia. Da settimane si ripetono passaggi e incursioni navali al largo delle coste giapponesi. La morte di Abe cambia qualcosa?

Il governo giapponese ha innalzato il livello d’allerta per i mari territoriali dopo l’invasione russa, ma queste incursioni avvengono sostanzialmente da dieci anni. Un terzo di questi episodi vede coinvolti mezzi russi. Non bisogna dimenticare che i due paesi sono ancora formalmente in guerra perché non si è mai arrivati a un trattato di pace vero e proprio ma solo a un accordo di buon vicinato. Ci sono questioni territoriali in sospeso sulle isole Curili: Abe ci ha provato instaurando anche un rapporto con Vladimir Putin, ma nel 2019 la riforma della costituzione russa ha introdotto una norma secondo la quale non si possono cedere territori a potenze straniere. Il Giappone ora si sente preso in una morsa e anche per questo il ministro della Difesa Nobuo Kishi (peraltro fratello di Abe) propone un rafforzamento ulteriore delle capacità di difesa e una maggiore cooperazione con gli Usa.

Il Giappone potrebbe volere maggiormente l’istituzionalizzazione di una versione asiatica della Nato?

Sì ma credo sia difficile da ottenere. I paesi che formalmente potrebbero essere d’accordo come Vietnam e India portano avanti una politica estera asimmetrica e firmano accordi di cooperazione con la Russia, cercando di mantenere buoni rapporti con la Cina. La Corea del Sud ha dato disponibilità a cooperare a livello trilaterale ma difficilmente può aderire a un patto di sicurezza. L’insicurezza strutturale del Giappone è accentuata dall’ipotesi di abbandono da parte degli Stati Uniti. Preoccupazione che si è fatta molto concreta durante l’era Trump e ancora presente in vista del 2024.

Quanto hanno inciso i legami con la destra radicale nelle politiche di Abe?

Una percentuale altissima del partito fanno parte della Nippon Kaigi, fazione di chiara ispirazione nazionalista e revisionista. Ma credo che la longevità di Abe sia dipesa soprattutto dalla sua capacità di tenere in equilibrio tutte le componenti del partito.  I suoi richiami a rilanciare il paese per fargli superare i traumi del dopoguerra hanno avuto un appeal per gli elettori nostalgici di un Giappone ricco che conquistava il mondo soprattutto attraverso i suoi mezzi economici. Abe ha invece sempre evitato il richiamo all’imperialismo giapponese. La crisi economica iniziata negli anni ’90 ha avuto strascichi e ha portato al tentativo di ridisegnare la storia, col tentativo di costruire un Giappone che torna membro attivo sulla scena internazionale. Sintomo della decadenza di una potenza economica in forte difficoltà perché non ci sono le risorse né materiali né umane presenti invece nella vicina Repubblica Popolare. E  non c’è neppure la dominanza su alcuni settori di mercato ottenuta dalla Corea del Sud tramite le sue compagnie tecnologiche. In sostanza, Abe ha provato a far superare al Giappone una crisi di identità dalla quale non è però ancora uscito.

Di Lorenzo Lamperti