Ha appena 16 anni, ma già da qualche anno raccoglie fan ai quattro angoli del globo. Si chiama Hatsune Miku ed è una diva interamente digitale. Non solo, è al 100 per cento open source, una piattaforma di "cultura creativa" che unisce aspiranti cantanti a designer 3D. Quali sono le dinamiche del suo successo? China Files lo ha chiesto a Toshio Miyake, studioso di culture popolari del Giappone. È solo diciottesima nelle classifiche di vendite degli album e nona in quella dei DVD del suo paese. Visti così, i numeri delle classifiche di Oricon – la chart ufficiale della musica giapponese – riferiti a Hatsune Miku sarebbero dignitosi per chiunque lavori nello showbiz. Eppure non colgono a pieno un fenomeno ormai globale, su cui esistono, al di là dei biglietti venduti per le date in Giappone e all’estero e i proventi del merchandising, stime in costante evoluzione.
Miku ha quasi due milioni di fan su Facebook e i suoi concerti sono veri e propri eventi, dall’Asia all’Europa agli Stati Uniti e all’America Latina: si calcola che oltre 85 mila persone abbiano assistito ai suoi concerti l’anno scorso.
Su Youtube, si trovano numerosi filmati dei suoi Live Party – alcuni dei quali più cliccati dei video di regine del pop come Beyoncé – dallo Zepp di Tokyo, sull’isola artificiale di Odaiba, al Downtown Independent theater di Los Angeles. Ad aprile scorso, ha addirittura aperto un concerto di Lady Gaga.
Tutto ciò è sorprendente soprattutto perché “lei” non è un’artista reale, ma totalmente digitale.
Hatsune Miku nasce nel 2007 ad opera della Crypton Future Media, come applicazione per un software musicale della Yamaha, Vocaloid, utilizzato da professionisti e amatori per la sintesi vocale su pc. Il successo di Miku è stato tale da oscurare i suoi “predecessori”, ovvero i precedenti applicativi per Vocaloid in grado di riprodurre diversi timbri vocali e di “cantare” in diverse lingue. Secondo Muraki Kanae, direttore marketing della Crypton raggiunto da USA Today, Miku è ormai un “hub di cultura creativa” per la collaborazione di un numero potenzialmente infinito di artisti.
Il perché è presto spiegato: Hatsune Miku è stata la prima applicazione del suo genere a ricevere un corpo e una personalità, nonché una voce – quella infantile e squillante della doppiatrice e cantante Saki Fujita – tutte sue.
È una ragazzina di 16 anni, ha occhi grandi, viso minuto, i capelli verde acqua legati in due lunghe code. Ma essendo virtuale, in sette anni non è invecchiata di un secondo. Anzi, ha mantenuto il suo look caratteristico con camicetta, gonna corta a pieghe, e calze lunghe altezza cosce, che ricorda quello delle divise delle studentesse giapponesi (sue coetanee nel mondo reale). E oggi, a sette anni dalla sua comparsa sul mercato, Project Diva F2, il software che ha reso celebre Hatsune Miku, è di nuovo in testa alle classifiche di vendita di programmi per console.
Uno dei segreti del suo successo è il suo aspetto grafico, quello classico dei personaggi del filone moe. In giapponese, spiega in un lungo articolo Patrick W. Gailbraith, esperto di culture popolari del Giappone contemporaneo e autore di The Otaku Encyclopedia, moeru significa “fiorire”, “sbocciare” ed è omofono del verbo “bruciare”.
Questo termine è oggi particolarmente diffuso tra gli studiosi di culture otaku, un termine giapponese usato genericamente per descrivere i fan di anime, manga e videogiochi, per descrivere una forma di desiderio, soprattutto mentale ma dai risvolti anche fisici, per personaggi virtuali dotati di precisi caratteri corporei: moe sono di solito giovani ragazze, ma esistono diversi esempi di moe al maschile. Segni particolari: occhi grandi e senza pupille, pelle molto chiara e personalità pura e innocente.
Personaggi di questo tipo hanno avuto un vero e proprio boom negli anni ’90. In particolare in seguito all’uscita dell’anime Neon Genesis Evangelion (1995-96) che con il successo d’immagine della sua protagonista Rei Ayanami è diventato punto di riferimento per una nuova generazione di otaku cresciuti nell’epoca dei media e della comunicazione di massa.
Gli anni ’90 sono stati un punto di svolta nell’evoluzione delle subculture giovanili in Giappone. L’origine del cambiamento va cercata nei mutamenti strutturali della società giapponese: è in questo periodo infatti che i rapporti tradizionali di famiglia, scuola e lavoro iniziano a disgregarsi e si afferma la società dei consumi.
La decisione della Crypton di dare un’identità grafica in stile moe a Miku ha avuto risultati da record. Ad appena un mese dalla sua uscita, diventa il software del suo genere più venduto con un ricavo per la Crypton di quasi 60 milioni di yen (circa 430 mila euro).
L’aspetto kawaii (“carino” in giapponese) da eroina di manga di Miku unito alla facilità di utilizzo di Vocaloid hanno favorito il successo dell’applicazione e hanno scatenato la creatività dei suoi utenti: basta avere un testo e immetterlo nel software. Come ha spiegato Ian Condry, studioso di anime e manga dell’MIT di Boston, «è come scrivere una canzone per Lady Gaga e fargliela cantare veramente».
Poco dopo l’uscita del software, infatti, si sviluppa un genere musicale tutto nuovo, il “vocalo”.
«Molti creatori di musica ‘vocalo‘ – ha scritto Setsuko Iseda, responsabile software e audiovisivi in un punto vendita Animate, la più grande catena giapponese nel settore anime, manga e software, in un editoriale comparso su The Japan News – non avevano avuto nulla a che fare con la musica. Alcuni forse l’avevano coltivato come hobby, ma la maggior parte di loro non aveva mai pensato di poter fare soldi con la musica. Tanto che le canzoni ‘vocalo’ si trovano gratis online».
L’ascesa di questa popstar digitale non ha solamente stimolato l’estro di musicisti alle prime armi – sarebbero oltre 100 mila, secondo un comunicato della Crypton, le canzoni prodotte dai fan grazie al software – ma di una schiera di disegnatori, animatori, graphic designer e programmatori che hanno dedicato all’eroina dai capelli verdi le loro creazioni.
Queste si sono diffuse in rete soprattutto grazie a social network come Nico Nico, l’equivalente giapponese di Youtube, o su portali freeware, come Vocaloid Promotion Video Project, da cui è possibile scaricare software per creare video promozionali con animazioni dei modelli in 3D di Miku e degli altri Vocaloid.
Miku ha una sua definizione come personaggio, è un kyara (nipponizzazione del termine inglese character) ma non ha una sua storia personale, non si sa chi sia davvero o da dove arrivi. Sono i suoi fan a definirlo, creando un numero infinito di passati, presenti e futuri per lei.
Miku è una diva open source al 100 per cento, tanto da aver attirato l’attenzione dei grandi nomi della moda che si sono impegnati a disegnarle costumi e vestiti degni di una regina del pop: a un suo concerto a Los Angeles – a cui hanno assistito dal vivo 5mila persone, 160 mila online – sfoggiava un completo firmato da Marc Jacobs, mentre a Parigi, dove era protagonista di un’opera per Vocaloid intitolata The End, era vestita da Louis Vuitton.
Come ha spiegato lo stesso Condry in un suo recente studio, Hatsune Miku è un esempio di una "creatività collaborativa". I fan di Miku non sono solo consumatori di un prodotto, ma ne diventano loro stessi produttori.
Secondo Toshio Miyake, docente di Società del Giappone contemporaneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore di libri ed articoli sulle culture del Giappone contemporaneo e sulla loro ricezione in Europa e Stati Uniti, contattato da China Files, il successo di Miku in Giappone è da spiegarsi proprio nell’ottica di un movimento di pro-sumers (produttori e consumatori al tempo stesso) all’interno della più ampia categoria degli otaku.
Il reale successo di Miku rimane relativo e ancora tutto da verificare, ma il fenomeno negli ultimi tempi ha suscitato un notevole interesse. E il suo impatto mediatico anche al di fuori dell’arcipelago del Sol Levante è forte.
«Nello specifico, si sono diffusi gusti metropolitani globalizzati condivisi (gli otaku o nerd, le forme di erotismo digitale, la tendenza alla diffusione di un gusto per tutto ciò che è “cute”, carino) tra diverse società post-industriali».
Secondo Miyake, poi, sembra inoltre esserci un crescente interesse verso la musica che arriva dall’estremo oriente: «Forse il fenomeno Gangnam Style – spiega Miyake – ha contribuito a costruire una nuova immagine cool della musica pop “orientale”».
Tuttavia, conclude Miyake, il successo di Miku, ormai di portata globale, rischia di promuovere una percezione stereotipata del Giappone, mutuata dall’alta evoluzione tecnologica del paese-arcipelago. «In generale assistiamo negli ultimi anni a una crescente popolarità internazionale delle culture popolari nipponiche. Spesso, però, questa sfocia in fenomeni di quello che potremmo chiamare "tecno-orientalismo"».
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