La crisi del settore in Giappone ha dimensioni catastrofiche: Sony, Panasonic e Sharp subiscono ingenti perdite, vittime di una concorrenza sempre più grande e dell’incapacità di reinventarsi. L’unica speranza? Mettersi a produrre chip.
Dimenticatevi gli anni ruggenti dell’elettronica giapponese, quando le aziende nipponiche sembravano minacciare i competitor americani e sbaragliare tutti in fatto di qualità e precisione.
Dimenticatevi quella grandiosa epopea che portò una nazione abbattuta e umiliata dalla sconfitta della Seconda Guerra mondiale a diventare una delle potenze più forti del mondo.
Quei tempi, almeno per il settore elettronico, sono finiti. Le storiche marche giapponesi non sono più in grado di innovare e le perdite del settore aumentano.
Come riporta il Wall Street Journal, solo nelle ultime settimane, ben tre tra le più celebrate aziende giapponesi – Sony, Panasonic e Sharp – hanno stimato ingenti perdite per la chiusura dell’anno fiscale a marzo, per un valore complessivo di 17 miliardi di dollari.
La Sony si affaccia sul precipizio del quarto anno consecutivo di perdite: secondo Bloomberg, il suo valore è passato da 100 miliardi di dollari nel 2000 a soli 19 miliardi nel 2011. Il nuovo amministratore delegato, Kazuo Hirai, che prenderà le redini del comando a partire dal mese di aprile, ha già annunciato che i comparti meno competitivi verranno chiusi, mentre si investirà nel settore dei cellulari, così come in nuove aree, ad esempio in quella della tecnologia medicale.
La Panasonic e la Sharp non se la passano meglio: quest’anno affrontano le perdite peggiori della loro storia.
Se si paragona il dato complessivo dei 17 miliardi di perdite con i ricavi della Apple solo nell’ultimo trimestre – 13,1 miliardi di dollari – si capisce l’entità della questione. Ma quali sono le motivazioni di questa progressiva irrilevanza dell’industria elettronica giapponese?
Alcune, come sottolinea per esempio il Guardian, hanno a che fare con una congiuntura particolarmente infelice: oltre allo tsunami dell’anno scorso che ha danneggiato l’economia in un contesto di crisi internazionale, c’è uno yen molto forte che certo non aiuta.
C’è stata poi la devastante inondazione in Thailandia che ha messo in difficoltà molte delle sedi produttive. Inoltre, la domanda di televisioni di fabbricazione giapponese si è fortemente ridotta e il settore tecnologico non è stato in grado di sfruttare il boom della telefonia mobile degli ultimi anni.
Il comparto industriale giapponese non ha saputo rinnovarsi, non ha saputo creare una gamma di prodotti che fidelizzassero il consumatore, portandolo a fare i propri consumi mediali su dispositivi diversi ma appartenenti allo stesso brand – come insegna il caso della Apple.
Piuttosto, le aziende del Sol Levante hanno ampliato a dismisura la gamma dei prodotti offerti, talvolta continuando a mettere in circolazione tecnologie ormai obsolete (la Sony ha mandato in soffitta il fortunatissimo walkman solo nel 2010 e la Panasonic ha eliminato dalla produzione il videoregistratore giusto pochi giorni fa!).
Masugi Kaminaga, membro della società di consulenza Roland Berger, ascoltato dal Wall Street Journal, commenta così le scarse performance del settore: “Dal punto di vista storico, questo è il periodo più duro per le aziende elettroniche giapponesi. Non sono mai state sfidate e ora si trovano a dover affrontare sfide da ogni lato”.
Un po’ come accadde ai colossi tecnologici americani di fine anni Settanta che dovettero adattarsi per sopravvivere. Oggi i più temibili avversari dei giapponesi non sono solo sudcoreani e taiwanesi (oltre agli americani della Apple), ma anche le aziende cinesi che già si profilano all’orizzonte.
Eppur qualcosa si muove. Giusto pochi giorni fa il Financial Times rendeva conto delle discussioni in corso per creare una società leader nella creazione di chip: tale gruppo nascerebbe dalla fusione dei comparti per la produzione di chip di Panasonic, Fujitsu e Renesas, e avrebbe l’appoggio governativo tramite il fondo Innovation Network of Japan.
Secondo il Nikkei, l’accordo dovrebbe essere siglato entro marzo e la nuova società potrebbe vedere la luce entro la fine dell’anno. Una tempistica che a molti osservatori, però, suona poco realistica: tanto più che a ostacolare l’intesa ci sono questioni come la ricollocazione della forza lavoro e il taglio dei posti.
Il governo si è dunque accorto che è arrivato il momento di fare qualcosa, anche per arginare il rischio di fuga all’estero del know-how del settore, ma basterà per riportare ai vecchi fasti le aziende giapponesi?
[Foto credit: vstcafe.com]* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello "Yomiuri Shimbun", il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).