Dieci milioni di yen, poco più di 70mila euro. È questa la somma stanziata quasi dieci anni fa per istituire un fondo che aiutasse i detenuti del braccio della morte nelle carceri giapponesi ad pagarsi le spese necessarie per sostenere un nuovo processo. Ora l’attività continuerà. Mentre continuano le esecuzioni, sempre più frequenti dall’insediamento del governo di Abe Shinzo, che si scherma dietro l’alto tasso di approvazione popolare della pena capitale. A nove anni dalla nascita, gli amministratori di un fondo che sostiene la causa dei detenuti nel braccio della morte hanno dichiarato che continueranno la loro attività oltre la scadenza di dieci anni che si erano dati in origine.
Il Fondo Daidoji per la fine della pena di morte in Giappone non morirà. L’impegno dei suoi amministratori continuerà oltre i dieci anni originariamente prefissati. Quel che è certo oggi è che serviranno nuovi contributi e finanziamenti.
Istituito nel 2005, il fondo si era posto l’obiettivo di devolvere una somma di 10 milioni di yen, pari a 72mila euro, fino al 2015 a favore dei condannati a morte. La donazione iniziale portava la firma di Sachiko Daidoji, scomparsa l’anno prima a 83 anni, madre di un condannato e attivista per i diritti dei detenuti nel braccio della morte. Un milione di yen all’anno, con cui il fondo ha offerto supporto agli imputati per ottenere un nuovo processo e, allo stesso tempo, ha organizzato mostre con i loro lavori artistici ogni anno in occasione della giornata mondiale per l’abolizione della pena di morte.
Il 14 settembre si è aperta a Tokyo, alla galleria Owada nel centro culturale di Shibuya, una mostra speciale per il decennale del fondo. Qui fino al 23 settembre sono stati esposti i lavori migliori tra quelli raccolti nei nove anni di attività.
“Quando abbiamo istituito il fondo”, ha spiegato all’agenzia di stampa Kyodo Masakuni Ota, uno degli amministratori, “speravamo che la pena di morte sarebbe stata abolita nell’arco di dieci anni. Ma al momento, non vediamo segnali in questo senso e, anzi, è diventato ancora più importante per i condannati a morte mostrarci i loro lavori”. Dal 2005, il fondo ha ricevuto 367 opere dipinte da più di 30 detenuti. Numerosi sono stati anche gli scritti letterari: cinque di questi sono stati pubblicati.
Per i detenuti con condanna confermata, ai quali non viene comunicata la data dell’esecuzione, l’arte e la letteratura costituiscono uno dei pochi modi per esprimere la propria creatività o i propri desideri in uno stato di totale reclusione. Lo dimostra il numero di opere raccolte dal Fondo Daidoji Secondo Ota, infatti, esse sono un segno di “quanto i detenuti, attraverso i loro lavori, cerchino disperatamente un contatto con la società al di fuori del carcere, un dialogo con gli altri”.
Le ultime settimane hanno visto un periodo di rinnovata pressione internazionale su Tokyo per l’abolizione della pena di morte – Giappone e Usa sono gli unici due paesi del G8 a mantenerla.
Da pochi giorni, infatti, il numero di detenuti nel braccio della morte è tristemente diminuito. Il 29 agosto scorso, l’ex ministro della giustizia Sadakazu Tanigaki ha autorizzato l’impiccagione di Mitsuhiro Kobayashi e Tsutomu Takamizawa, entrambi condannati per omicidio plurimo, rispettivamente l’undicesima e la dodicesima esecuzione dall’insediamento del governo Abe a dicembre 2012. Tanigaki ha definito la scelta “difficile”, ma “doverosa”, vista l’efferatezza dei crimini imputati ai condannati. Inoltre, in risposta alle critiche delle ong internazionali, il ministro ha affermato che in Giappone c’è un diffuso consenso sull’utilità della pena di morte.
Amnesty, tra le ong più attive nel stigmatizzare la pratica, definisce quella del Giappone una “sfida alla società globale, sempre più a favore di un’abolizione della pena capitale”. Al momento attuale sono 126 i detenuti in attesa di esecuzione, 85 dei quali hanno fatto ricorso contro la condanna e 25 hanno presentato richiesta di amnistia.
Alcune organizzazioni non governative come il Japan Innnocence and Death Penalty Information Center puntano il dito contro la pratica, espressione di un più ampio problema del sistema giuridico nipponico che fa troppo affidamento sulle confessioni – spesso estorte con la violenza – dei sospetti.
Come nel caso di Iwao Hakamada, un ex pugile detenuto per 45 anni nel braccio della morte, condannato dopo la presentazione durante il processo di prove a suo carico probabilmente fabbricate. La sua richiesta di un nuovo processo è stata accolta ed ora l’uomo è fuori, in attesa di un nuovo processo.
[Scritto per Lettera43; foto credit: japantimes.co.jp]