Giappone – Al governo non piace discutere

In by Gabriele Battaglia

Secondo alcuni stereotipi i giapponesi non amerebbero i contenziosi. Dalle aule di tribunale alla strada. Eppure nel parlamento nazionale di questi giorni si litiga eccome. Al centro del contendere c’è la riforma che porterebbe l’esercito giapponese a un ruolo più attivo in campo internazionale.Potrà sembrare un’ovvietà, ma anche i giapponesi litigano. Certo, ci sono, come sempre, persone a cui piace di più e persone a cui piace di meno. 

Eppure le narrazioni che dipingono il Giappone come un paese fondato sull’omogeneità etnico-culturale, sulla concordia sociale, sulla gentilezza, sul customer service — oppure più spesso sui media allo “strano ma vero” radicale come il paese delle perversioni sessuali estreme e al contempo dell’asessualità — non passano di moda facilmente.

Come scrive in un suo articolo Giorgio Colombo, professore associato di diritto all’Università di Nagoya, parlando delle narrazioni fatte in particolare da studiosi europei sui giapponesi come insofferenti a leggi esterne alle proprie convenzioni socio-culturali e poco inclini a ricorrere ai contenziosi. Certo, Colombo fa riferimento all’ambito giudiziario, ma il discorso può essere esteso a quasi tutte le forme di “litigio” pubblico, in particolare alle discussioni parlamentari.

Sono giorni, questi, qui a Tokyo, di accesi dibattiti nelle aule della politica. Rispetto ad altre parti del mondo si mantiene un discreto grado di civiltà e compostezza, questo va riconosciuto. Ma non mancano certo gli scontri. Il parlamento giapponese è impegnato nella discussione della proposta di legge del governo sul rafforzamento della cooperazione di difesa con gli Stati Uniti.

Una riforma particolarmente delicata e difficile per almeno un paio di motivi: la necessità di forzare la Costituzione postbellica giapponese che sulla carta esclude qualsiasi impegno militare dell’esercito giapponese fuori dai confini nazionali (non a caso sono chiamate jieitai, ovvero Forze di autodifesa); e la diffusa opposizione popolare a un qualsiasi tentativo di cambiare lo status quo che in 70 anni ha contribuito all’affermazione del Giappone come paese di pace e progresso, in netto contrasto con quanto era stato l’Impero del Sol Levante fino al 1945.

In poche parole: i giapponesi non vogliono essere coinvolti in conflitti armati. Soprattutto perché non sarebbero nemmeno conflitti in tutto e per tutto “loro”, ma dello scomodo alleato statunitense.

Il paradosso è che questa posizione, dominante a livello popolare, non è sufficientemente rappresentata in parlamento, dove la maggioranza, schiacciante, è detenuta dal Partito liberaldemocratico del primo ministro Shinzo Abe. Dalla sua, Abe ha i numeri — strappati alle ultime elezioni vinte con una partecipazione elettorale bassissima (poco più del 50 per cento) — e la sicurezza del proprio posto. Ma questo può talvolta diventare uno svantaggio. E portare a delle gaffe rivelatrici di qualche nervo scoperto di troppo o, più semplicemente, di arroganza e impreparazione.

Qualche episodio.

Il primo, il 28 maggio scorso. Durante una seduta di discussione del disegno di legge presentato dal governo, il primo ministro ha interrotto violentemente l’intervento di una parlamentare dell’opposizione. Approssimando una traduzione italiana, lo strillo di Abe contro Kiyomi Tsujimoto, parlamentare del Partito democratico (Dpj), è suonato come: “Veloce, fammi ‘sta domanda!”

Qui di seguito il video del fatto. Per capire cosa succede, non serve sapere il giapponese; basta dare un’occhiata alle facce dei presenti.

L’atteggiamento del primo ministro ha suscitato le immediate proteste dell’opposizione e catturato l’attenzione dei media nazionali. Lo yaji (l’interruzione dell’interlocutore con commenti poco “simpatici”) non è certo qualcosa di nuovo. Ma quando proviene dal primo ministro in persona, in particolare verso una parlamentare donna — alla faccia dell’empowerment! — fa un certo effetto. 

In particolare fa riflettere sull’opinione del primo ministro riguardo il dibattito parlamentare, fermato proprio in un momento cruciale in cui al centro del contendere politico c’è la riforma che potrebbe riportare il Giappone in una guerra dopo 70 anni.

Qualche giorno più tardi, Abe si è scusato pubblicamente, ma senza troppa convinzione: “Se per caso le mie parole sono sembrate troppo forti, chiedo scusa”. Alla signora Tsujimoto e ad alcuni dei suoi colleghi di partito, la cosa, manco a dirlo, non è piaciuta.

Al bullismo di Abe si accompagna in questi giorni il loop di negazione della maggioranza del Ldp.

Da giorni alcuni quotidiani — tra cui il Tokyo Shimbun, quotidiano della capitale — raccontano di decine di migliaia tra avvocati e costituzionalisti firmatari di appelli contro la proposta di legge in discussione alle Camere, che, se dovesse essere approvata, segnerebbe lascerebbe una profonda ferita alla costituzione del 1947.

La scorsa settimana, dopo un botta e risposta tra Ldp e Dpj sul tema, il capo segretario di gabinetto, il portavoce del governo, Yoshihide Suga ha dichiarato che la proposta di legge è “costituzionale” e che il piano del governo ha il sostegno di una sua propria schiera di esperti. Alla domanda sul numero di costoro, Suga ha risposto con un vago “dieci”. Aggiungendo che non è un problema di numeri.

Minoranza o maggioranza non sono rilevanti: la decisione la prende solo una delle due parti. Se ci sono dei giapponesi a cui non piacciono le discussioni sono quelli al governo oggi.

[Scritto per East online; foto credit: twitter.com]