Il governo Abe approverà oggi una modifica all’interpretazione dell’articolo pacifista della costituzione giapponese in nome dell’autodifesa collettiva. Ma cosa ha portato a questa decisione? E come hanno fatto Abe e il suo entourage a giustificare la loro scelta? Siamo andati a frugare nei "rifiuti della storia". Nel suo tentativo di far diventare la riforma costituzionale una realtà, il primo ministro giapopnese Shinzo Abe prova a servirsi di una sentenza controversa del 1959 come prestesto per reinterpretare la costituzione del paese e autorizzare l’esercizio dell’autodifesa collettiva.
Il verdetto della Corte suprema sul “Caso Sunagawa”, il nome con cui è diventato noto, afferma che la costituzione giapponese non impedisce al Giappone di prendere “misure difensive necessarie al fine di mantenere la pace e la sicurezza del Giappone”. Secondo i consiglieri di Abe, questa sentenza può essere interpretata nel senso di un via libera all’autodifesa collettiva. La mossa è stata fortemente criticata da esperti legali e comuni cittadini che si sentono sempre più a disagio rispetto al tentativo temerario e spregiudicato del primo ministro di cambiare e reinterpretare la costituzione.
Il caso Sunagawa scoppiò nel luglio 1957 quando sette manifestanti giapponesi furono arrestati per essere illegalmente entrati nello spazio di una base americana nella città di Sunagawa (ora Tachikawa) per protestare contro l’espansione della base.
Nel giudizio del Tribunale distrettuale di Tokyo nel 1959 la presenza delle forze Usa sul territorio giapponese veniva reputata incostituzionale. Il giudice Akio Date sottolineava che la presenza Usa costituiva un potenziale bellico che violava il secondo paragrafo dell’articolo 9, secondo cui “ogni potenziale bellico…non sarà mantenuto”. I sette imputati furono rilasciati subito dopo.
Il “verdetto Date” scatenò un’onda d’urto che percorse l’Oceano Pacifico fino agli Stati Uniti. Se quel verdetto fosse stato accolto come valido, il Trattato di Sicurezza tra Usa e Giappone sarebbe andato in crisi.
Resisi conto della gravità della situazione gli americani decisero di entrare subito in azione. Telegrammi (svelati nel 2008) tra l’allora ambasciatore in Giappone, Douglas MacArthur II, e l’allora Segretario di Stato Christian Herter, hanno rivelato l’interferenza americana nelle procedure legali relative al caso Sunagawa. Ne sono emersi dubbi riguardo all’autonomia giapponese e all’integrità del sistema giudiziario. Che oggi l’amministrazione Abe sbandieri questo caso come fonte giuridica per il rafforzamento dell’autonomia giapponese è l’ironia della storia.
I cablogrammi hanno rivelato, tra l’altro, che MacArthur incontrò più volte il ministro degli Esteri giapponese Aiichiro Fujiyama. Nel primo meeting tra i due – il giorno subito successivo alla sentenza della Corte distrettuale – MacArthur invitò Fujiyama a convincere il governo di fare appello contro la sentenza alla Corte Suprema. Cosa che fu fatta quattro giorni più tardi.
Ma più problematici ancora sono i frequenti incontri segreti tra MacArthur e il suo “amico” presidente della Corte suprema Kotaro Tanaka che aveva competenza sull’appello. Il contenuto dei loro incontri non chiaro in tutti i dettagli, ma appare chiaro che Tanaka abbia infranto il segreto professionale rivelando informazioni di vitale importanza sulle posizioni e le inclinazioni degli altri 14 giudici.
Gli Stati Uniti invitarono anche il pubblico ministero a dire mezze verità fuorvianti. Un funzionario del Ministero degli Esteri informò MacArthur che la difesa stava pianificando di dimostrare l’incostituzionalità delle forze Usa su territorio giapponese argomentando che le unità di stanza in Giappone erano state utilizzate nella crisi dello Stretto di Taiwan nel 1958. Gli Stati Uniti, successivamente, invitarono il pubblico ministero a dire che nonostante la Settima flotta fosse stata usata nella crisi dello Stretto di Taiwan, essa non operava da basi giapponesi (cosa in parte vera) – argomentazione questa che fu portata avanti con successo dall’accusa. Tuttavia, non ci fu alcun commento sulle altre unità dell’esercito americano di stanza in Giappone che avevano effettivamente preso parte alla crisi.
La Corte suprema rovesciò il “Verdetto Date” nel dicembre 1959. Ciò avrebbe avuto importanti ripercussioni per il Giappone come stato costituzionale. La presenza americana in Giappone fu giudicata né costituzionale né incostituzionale. All’atto pratico, la sentenza della Corte suprema stabiliva che decidere sulla costituzionalità di “questioni di grande rilievo politico” riguardanti la sicurezza del Giappone, “quali il Trattato di Sicurezza” non era di competenza del potere giudiziario.
Mentre la costituzione giapponese non dice nulla di specifico riguardo l’autodifesa collettiva, l’interpretazione consolidata in tutti i governi giapponesi dal dopoguerra a oggi è stata quella secondo cui l’articolo 9 proibisce la partecipazione del Giappone in operazioni di sicurezza collettiva. Rispolverando il Caso Sunagawa, Abe crede ora di aver trovato una via di fuga.
D’altra parte, Abe rischia di scoperchiare un vaso di Pandora. In fondo, il Caso Sunagawa stabiliva l’incostituzionalità della presenza americana in Giappone. Il sospetto è che l’interferenza americana e il servilismo giapponese abbiano giocato un ruolo di rilievo nel rovesciare il giudizio originale della Corte suprema. Ergendosi a difesa del Caso Sunagawa, Abe potrebbe aver inconsapevolmente diretto l’attenzione pubblica verso la dubbia procedura legale attraverso cui si è giunti al verdetto finale, riaprendo così interrogativi dimenticati da tempo sulla costituzionalità della presenza americana in Giappone.
Ma la paura più grande è che il caso Sunagawa possa permettere ad Abe semplicemente di ignorare tali questioni di incostituzionalità sulla base della loro “importanza politica”, e che l’autodifesa collettiva segni l’inizio di un più radicale rafforzamento in senso bellico della costituzione giapponese. Sarebbe stato meglio lasciare il Caso Sunagawa nell’immondezzaio della storia.
Articolo originale pubblicato su East Asia Forum, ripreso e tradotto dietro consenso dell’autore.
*Ulv Hanssen è dottorando presso la Graduate School of East Asian Studies alla Freie Universität di Berlino