Se c’è qualcuno a cui mancherà Angela Merkel, questa è la Cina. Chi l’avrebbe detto nel 2007, quando ospitò il Dalai Lama. O nel 2008, quando non si presentò alla cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici di Pechino. L’ex premier Wen Jiabao, però, diceva di fidarsi di lei “perché dice sempre la verità”. Alla fine dei suoi quattro mandati la cancelliera ha visitato la Cina 12 volte, più di qualsiasi altro leader occidentale. “Ha portato benefici tangibili ai popoli di entrambi i paesi”, ha ribadito Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, all’indomani delle elezioni tedesche. Nella loro ultima telefonata Xi Jinping l’aveva ringraziata per essersi “attivamente adoperata nel promuovere cooperazione e amicizia tra Germania, Europa e Cina”. Durante l’era Merkel, le esportazioni tedesche in Cina sono aumentate di cinque volte, raggiungendo i 112 miliardi di dollari nel 2020. La Germania che Merkel lascia è molto più economicamente dipendente dalla Cina di quella che aveva trovato. Le grandi imprese tedesche, soprattutto quelle automobilistiche, sono profondamente interconnesse con il mercato cinese. Nonostante il pressing americano e gli effetti del Covid, Merkel ha spinto per l’accordo sugli investimenti (Cai) come ultimo atto del suo semestre europeo.
Senza di lei la Cina perde l’interlocutore privilegiato in Europa, non fosse altro perché era l’unico che garantiva due cose a cui Pechino tiene molto: stabilità e pragmatismo. “Ci aspettiamo che il nuovo governo tedesco possa continuare politiche equilibrate e pragmatiche”, ha detto Hua. È però prevedibile che ci sia un riassestamento delle relazioni da parte di Berlino. Se più o meno rilevante, dipenderà dal tipo di coalizione. I Verdi hanno la posizione più scettica nei confronti di Pechino e sono molto attivi anche a Bruxelles: tra le altre cose hanno chiesto sanzioni su Hong Kong e Xinjiang. Anche i liberali Fdp sollevano questioni sui diritti umani. Cdu e Spd appaiono più cauti, anche se nel 2019 la “confindustria” tedesca ha chiesto una revisione delle politiche industriali definendo la Cina “concorrente sistemico”. Olaf Scholz è stato sindaco di Amburgo, dove il colosso cinese Cosco ha appena acquisito il 35% di uno dei container del porto, il principale hub dei commerci tra Europa e Repubblica Popolare. E da ministro delle Finanze ha rappresentato la Germania nell’Asia Infrastructure Investment Bank. Difficile aspettarsi azioni inconsulte con lui alla cancelleria, ancora meno con una grande coalizione Cdu/Csu/Spd, probabilmente l’ipotesi preferita a Zhongnanhai. Ma trovare un nuovo equilibrio, soprattutto in caso di altre formazioni, non sarà semplice. Lo dimostra il caso della fregata Bayern, timido simbolo dell’impegno tedesco per l’Indo-Pacifico: quando ha chiesto l’attracco al porto di Shanghai come segno che la sua comparsa non seguiva obiettivi anti cinesi, le autorità di Pechino hanno rifiutato. È probabile che a Duisburg, terminale europeo non ufficiale (ma reale) della Belt and Road, sperino che quell’equilibrio venga trovato.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.