“Pensiamo che il 6G sarà sul mercato intorno al 2030, anche se non sappiamo ancora cosa sia”. Con queste parole lo scorso aprile il presidente di Huawei, Xu Zhijun, riassumeva perfettamente il paradosso della corsa cinese verso la rete di sesta generazione.
Mentre alle nostre latitudini si discute ancora sulla sicurezza del 5G, in Cina, policymaker e aziende private lavorano già al 6G. Fin dal 2018. La data non è casuale. E’ l’anno dell’inizio della guerra commerciale con gli Stati Uniti, l’anno dell’arresto della CFO di Huawei Meng Wanzhou, l’anno in cui Pechino capisce che la dipendenza dalla tecnologia occidentale rischia di sabotare la crescita nazionale. Undici mesi dopo, il ministero cinese della Scienza e della Tecnologia crea una task force dedicata allo sviluppo della rete di sesta generazione, composta da dirigenti governativi e 37 esperti provenienti da università, istituti di ricerca e società tecnologiche.
Per la Cina, il 6G non è solo una questione di prestigio internazionale. Con l’export – traino economico dei primi quarant’anni di riforme – in balia del Covid e delle tensioni geopolitiche internazionali, l’innovazione rappresenta un vero e proprio salvagente. Una questione di sicurezza nazionale ancora prima che di leadership globale. Come spiega la società di consulenza Trivium, l’importanza delle nuove tecnologie (tra cui spiccano l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e proprio il 6G) trova conferma nel ruolo attribuito all’economia digitale che – stando all’ultimo piano quinquennale 2021-2025 – nel prossimo lustro dovrà raggiungere il 10% del Pil nazionale rispetto all’attuale 7,8%. Una scelta dettata non solo dai timori per un decoupling americano, ma anche dalla consapevolezza dell’insostenibilità finanziaria del vecchio modello di sviluppo basato sul binomio esportazioni – investimenti infrastrutturali. Un modello che fatica a tenere il passo con la società cinese. L’Industrial Internet of Things andrà a sostenere la produttività in una fase di rapido invecchiamento della popolazione.
A ciò si aggiungono considerazioni ambientali. La necessità di ripensare la pianificazione urbana in un’ottica “ecologically correct” si sposa con la nuova ricetta economica a base di “nuove infrastrutture”: non più grandi opere pubbliche, bensì infrastrutture 6G, intelligenza artificiale e IoT – quanto tiene in vita una smart city a basso consumo energetico – beneficeranno in larga parte del nuovo pacchetto di investimenti da 1.400 miliardi di dollari, stanziato lo scorso anno da Pechino per sostenere la crescita nazionale colpita dalla pandemia.
Come sempre, in Cina, il dirigismo economico del Partito/Stato permette di passare dalle parole ai fatti in tempi piuttosto brevi. A inizio giugno la China Academy of Information and Communications Technology, think tank del ministero dell’Informazione e dell’Industria tecnologica, ha pubblicato il primo libro bianco interamente dedicato alla rete di sesta generazione. Il documento – che proietta l’utilizzo commerciale della tecnologia al 2030 – elenca 10 tecnologie chiave e descrive in maniera più precisa otto scenari applicativi aziendali, come “il cloud XR immersivo, la comunicazione olografica, l’interconnessione sensoriale, la comunicazione interattiva intelligente e il mirroring virtuale, sistema grazie al quale gli ingegneri riescono a simulare il comportamento di sistemi complessi per prevedere e prevenire guasti meccanici, riducendo così inefficienze e costi.
Lo scopo del report è quello di dettare una linea precisa per orientare la ricerca e lo sviluppo nel settore, ottimizzando quanto imparato con il 5G. A questo proposito la stampa statale non nega che il braccio di ferro con Washington abbia contribuito ad accelerare i lavori. Secondo il tabloid nazionalista Global Times, essendo stato il primo paese ad avviare una strategia nazionale – “ben prima degli Stati uniti” – la Cina conserva un netto vantaggio competitivo rispetto alle potenze occidentali.
Questo protagonismo cinese lo si ritrova non solo nella realizzazione delle infrastrutture di rete. Due anni fa i colossi delle telecomunicazioni China Unicom e ZTE hanno annunciato un accordo di cooperazione, stando al quale le due aziende non solo svolgeranno ricerca congiunta sulle tecnologie 6G, ma soprattutto lavoreranno insieme alla definizione degli standard della tecnologia mobile del futuro. Un elemento decisivo per favorire l’espansione oltreconfine dei big tech cinesi. A questo scopo Pechino ha in cantiere un progetto chiamato “China Standards 2035”, un piano quindicennale (circolato solo in via ufficiosa) che delinea quali dovranno essere – secondo il governo cinese – gli standard globali delle tecnologie mobili di prossima generazione. Monopolizzare il processo di standard-setting permetterebbe al gigante asiatico di ottenere il dominio in settori strategici come le reti di telecomunicazione, l’intelligenza artificiale e il traffico dati. I vantaggi economici sono intuitivi: secondo Research and Markets, il mercato mondiale del 6G potrebbe raggiungere un valore di 1.773 miliardi di dollari entro il 2035. Ma Pechino pare guardare oltre.
Un articolo, comparso lo scorso anno sulla rivista ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione, afferma che “promuovere l’applicazione graduale del 6G nell’esercito potrebbe diventare in futuro uno dei principali obiettivi delle forze armate cinesi”. Secondo il rapporto, “un migliore accesso a Internet, elevate velocità di trasmissione, basso ritardo e un’ampia larghezza di banda favorirebbero progressi militari nella raccolta di informazioni, nella visualizzazione delle operazioni di combattimento e nella fornitura di un supporto logistico più preciso.”
Scenari futuribili o semplice propaganda? Per Greg Austin, capo del Cyber, Space and Future Warfare Program dell’International Institute for Strategic Studies, Pechino sta barando. Il primo lancio di un satellite 6G annunciato in pompa magna dai media governativi nell’estate 2020 sarebbe solo un mezzo spaziale con funzioni sperimentali. Stando all’esperto, “ciò che la Cina sta facendo è essenzialmente convincere i cittadini e il resto del mondo che è in grado di competere con gli Stati uniti e i suoi alleati”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Progetto Manager]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.