Gandu, il film. Eroina, sesso e rap a Calcutta

In by Simone

Gandu, il rap-movie indipendente girato da Qaushiq Mukerjee, è un’esperienza visiva potente e destabilizzante. Un Trainspotting indiano sullo sfondo di una Calcutta depravata fatta di sesso – da soli o in compagnia – droga e testi dissacranti, l’habitat delle avventure stupefacenti ed autoerotiche del protagonista: Gandu, il Coglione.
Se pensate di assistere alla proiezione di un film indiano, lasciate ogni speranza e accomodatevi in poltrona a vostro rischio e pericolo.
E’ questo il monito che accompagna tutte le recensioni del film Gandu, sia quelle che inneggiano al capolavoro immortale, sia quelle che lo liquidano come un porno-Trainspotting in salsa bengalese.

Dopo aver scioccato le platee e accumulato svariati premi al South Asian International Film Festival di New York, allo Slumdance, a Seattle, a Londra e a Berlino, Gandu è finalmente approdato al festival Asiatica Film Mediale di Roma, facendo scappare dalla sala chiunque non sopporti la visione di sesso grigio e rumoroso, di droghe spicciole di periferia urbana, di fellatio iperboliche e oscenità verbali.
Il film è stato definito un rap musical dal suo stesso creatore, Qaushiq Mukerjee (detto Q.), autore dei testi rap in lingua bengali che accompagnano lo svolgimento narrativo del lungometraggio insieme alle musiche di Five Little Indians, la band di rock alternativo con base Calcutta che ama fondere chitarre pesanti e musica estrema con i classici raga della tradizione hindustani. Inutile insistere: Gandu non ha la minima possibilità di passare il vaglio della censura indiana, che ancora soffoca un urlo di scandalo al pensiero di mettere sul mercato panindiano un bacio con la lingua.

Un film che sconvolge il perbenismo di romani e berlinesi ha ben poco futuro fra un pubblico cresciuto a suon di Mrinal Sen e Satyajit Ray, ma la sua stessa esistenza testimonia un cambiamento importante. Forse anche il cinema indiano si è stufato della sua ipocrisia e sceglie di ammazzare i tabù adottando la terapia d’urto, sbattendo sullo schermo tutto ciò che la morale ostracizza con estrema irriverenza e, al contempo, con la sublimazione di una fotografia magistrale.

Gandu è tutto ciò che il regista Q. aveva spiegato con cura quasi documentaristica al mondo con il suo ultimo lavoro, Love in India (2009), rielaborato in funzione della godibilità estetica. Gandu è un poema trash che analizza le frustrazioni della società indiana personificate nel personaggio principale – soprannominato per l’appunto “Gandu”, il Coglione – un giovane aspirante rapper senza futuro la cui vita è narrata da una telecamera che si immischia sfrontatamente nella sua sfera più intima, fino a mostrare al timido spettatore lo squallore della sua vita domestica, le sue masturbazioni, i suoi ridicoli e fallimentari tentativi di tirare a campare vincendo alla lotteria, i goffi furtarelli al portafogli dell’amante viscido e baffuto di sua madre, i suoi viaggi mentali e le sue allucinazioni stonate in compagnia dell’amico Riksha, un miserabile conducente di risciò innamorato del suo unico Dio: Bruce Lee.

Con soli novanta minuti in scale di grigio, fra cui si incornicia una sequenza di scene – forse confinate nelle fantasie del protagonista – di seduzione e di sesso a colori pulp, Gandu ci regala un’esperienza inaspettatamente indiana a tutti gli effetti.
Il registro linguistico volutamente sconcio è estremamente reale e rappresenta con coraggio e verosimiglianza lo slang dei bassifondi di Calcutta meglio di quanto abbiano provato a fare lo sparolacciare di Kaminey (di Vishal Bhardwaj, 2009) e Delhi Belly (Abhinay Deo, 2011).
La trasformazione di Kali da madre benevola a divinità irrefrenabile e follemente sensuale rappresenta con pochi e velocissimi fotogrammi l’inevitabilità metafisica del sesso nel sostrato tantrico e sciamanico delle religioni indiane. L’espediente dell’eroina permette all’occhio della camera di insinuarsi nel surreale mondo interiore del protagonista e di riproporre con lirico nonsense allo spettatore la fuga esotica di Gandu nella sua appagante fantasia a colori, ricordando nel frattempo alle frange bigotte della società indiana la realtà dell’uso di sostanze stupefacenti sul suolo del dio Shiva, a cui Gandu e Riksha si rivolgono come “il re della marijuana”.

In un contesto tradizionale per il quale provare vergogna di fronte alla propria nudità è un ordine, sono ancor più ammirevoli le performance degli attori Anubrata (Gandu) e Rii (la fidanzata del regista che recita nei panni dei tre controversi personaggi femminili, Kali, la ragazza occhialuta del cyber cafè e la prostituta felina dalla chioma fucsia), che hanno imparato a far esprimere senza timori i loro corpi dopo lunghi workshop con il metodo di Augusto Boal. Questo è Gandu nella cornice dell’arte rappresentativa indiana contemporanea: un inno alla realtà, un invito all’onestà cinematografica, una lotta accanita ed indignata contro il senso della vergogna e la falsità del pudore, la cui indignazione viene espressa dalla potenza della forma letteraria del riscatto degli emarginati per eccellenza: il rap.

Non resta che sperare che in qualche modo, per vie legali o per vie virtuali, Gandu si renda disponibile alla fruizione del pubblico per il quale è stato creato. Il suo successo sta girando i quattro angoli della Terra mentre in India è praticamente impossibile reperirne una copia nonostante lo scalpore stia impazzando solo tramite il passaparola e i curiosi si stiano moltiplicando a dismisura. Se veramente Gandu verrà proiettato in apertura dell’imminente Kolkata Film Festival (la diciassettesima edizione avrà luogo nel mese di novembre), allora avremo modo di osservare se e quanto il pubblico bengalese sia propenso ad esorcizzare le proprie paure e a risanare l’abissale discrepanza fra pellicola e quotidianità.

Potete vedere il trailer qui.

[Photo credit: sinhbisen.blogspot.com]