Le migliori teste economiche cinesi hanno iniziato a chiederselo. La Cina può ancora stare con i Bric (senza la "s" di Sudafrica)? I problemi in questi paesi sono tanti ma il potenziale di crescita rimane altissimo. La Cina finora ha fatto meglio di tutti e può addirittura porsi da diretto interlocutore degli Usa. È arrivata l’ora di fare il salto di qualità. La Cina crede ancora nei Bric? L’editoriale che compare su China Daily a firma Zhu Ning – ricercatore a Yale e alla Jiao Tong di Shanghai – solleva molti dubbi sulla consistenza delle economie emergenti, ma alla fine suona come un invito a proseguire sulla strada di un’alleanza più stretta tra i Paesi che compongono il gruppo: Brasile, Russia, India e, ovviamente, Cina (si noti l’assenza della “s” di “Sudafrica”, che evidentemente non è ritenuto parte del club).
Zhu mette in risalto i problemi che stanno affrontando i Bric in questa fase: inflazione e bolle speculative hanno prodotto un rallentamento della loro crescita e questo, a sua volta, ha dato luogo immediate proteste sociali e instabilità politica. Si pensi al caso del Brasile. In un circolo vizioso, la tensione politico-sociale potrebbe fare da ulteriore freno all’economia e così via.
Certo, sottolinea ancora l’articolo prendendo a esempio la Cina, la sempre maggiore convertibilità delle monete locali rispetto al dollaro permette alla popolazione di rivalutare il proprio reddito e, di conseguenza – aggiungiamo noi – di fare passi da gigante verso quel “middle income” che simboleggia sia un nuovo status sia la fine del vecchio modello economico fondato su export manifatturiero ultracompetitivo grazie al basso costo del lavoro. Diciamo quindi che i Bric fronteggiano quasi collettivamente la fine del vecchio modello senza essere riusciti a trainare tutta la popolazione fuori dalla povertà. Una crisi di crescita che rischia di diventare impasse.
È importante ricordare, scrive Zhu, che “dopo avere raggiunto il reddito medio, le economie di molti Paesi si sono sviluppate in modi diversi. Singapore e Corea del Sud sono felicemente uscite dalla cosiddetta “trappola del reddito medio” e sono divenute economie pienamente sviluppate. Ma al contempo altri Paesi, in particolare in Sud America e nel Sud-Est asiatico, non sono riusciti a migliorare le proprie economie. Questo aumenta le preoccupazioni sul destino dei Bric".
Tuttavia, l’analista ricorda che restano immutate le condizioni strutturali che hanno determinato la crescita esponenziale dei Bric nell’ultimo decennio, tanto da farli considerare una sorta di scialuppa di salvataggio anche per i Paesi già ricchi di fronte alla crisi economica globale. Anzi, tali condizioni sarebbero addirittura migliorate gradualmente.
“In primo luogo, si tratta di grandi Paesi con grandi popolazioni e potenzialmente grandi mercati”, e fin qui ci siamo. “In secondo luogo, le loro relativamente giovani popolazioni stanno diventando sempre più ricche e poco a poco formano una crescente classe media”. E si sa che una classe media emergente è fondamentale “sia per la crescita economica di un Paese, sia per il suo progresso sociale”. Questo progresso permetterà alla popolazione di “condividere e godere meglio della crescita economica e aiuterà il Paese a sostenere la successiva fase di sviluppo”. Un altro motivo di ottimismo è il potenziale di crescita dei Bric che, secondo Zhu, rimane intatto.
Nonostante molti critici siano pessimisti perché in questi Paesi mancano di solito un quadro giuridico moderno e la trasparenza sulle attività di governo, mentre abbonda invece la repressione delle forze che svolgono il ruolo più importante nell’economia, i Bric possono prendersi tempo per migliorare in questi ambiti perché nel frattempo continuano ad attrarre investimenti. E quando riformeranno i propri sistemi economici, politici e sociali, si scatenerà un effetto moltiplicatore per “una produttività e una ricchezza senza precedenti”.
Inoltre – e i casi di Cina e Brasile sono lì a dimostrarlo – i Paesi Bric sono ormai “i centri di crescita economica all’interno delle proprie regioni”. È questo forse l’aspetto più importante: il processo che potrebbe trasformare i Bric in centri di innovazione circondati da Paesi pronti a prendere il loro posto come poli manifatturieri. Il fatto che molte multinazionali stiano spostando le proprie attività da Cina e Brasile verso Vietnam, Indonesia, Ecuador e Bolivia, non deve infatti spaventare, perché significa che i due Bric “sono progressivamente diventati i leader regionali e, con l’espansione delle economie dei paesi limitrofi e di tutta l’area, il loro potenziale di ulteriore crescita è ancora maggiore”.
Possono così fare il grande salto e dedicarsi a innovazione, controllo della qualità, gestione e di branding. Da made in China/Brazil a designed in China/Brazil, insomma.
Poi c’è un problema tutto politico: la Cina sembra fare molto meglio degli altri, va più forte, rischia di diventare uno scomodo primus inter pares (fino a quando “pares”?). Resterà nel club? Qui il discorso si fa davvero interessante, perché Zhu sembra convinto che la Cina sperimenterà sul piano della diplomazia e della politica internazionale “un crescente collo di bottiglia e una frustrazione”, che la spingerà a “formare una più stretta alleanza con il Brasile, la Russia l’India e gli altri Paesi con mercati emergenti”. E così facendo, i Paesi del gruppo dei Bric “potranno prosperare insieme e ridurre il divario tra loro e il mondo sviluppato”.
China Daily si affretta a specificare che il parere dell’autore non riflette necessariamente quello del giornale, ma intanto lo pubblica, segno che il dibattito sulla collocazione economica e politica della Cina è sempre all’ordine del giorno: G2 con gli Usa, capofila degli Emergenti o un po’ di qui e un po’ di là? Probabilmente la terza, secondo consolidato pragmatismo di Pechino. In tutti questi altalenanti scenari geopolitici manca qualcuno: l’Europa, sempre meno interessante.
[Scritto per Lettera43; foto credits: scmp.com]