Tokyo Electric (Tepco), l’utility dell’energia che serve la capitale giapponese e alcune zone del Giappone orientale e gestisce l’impianto di Fukushima Dai-ichi, fortemente danneggiato da un terremoto e uno tsunami l’11 marzo 2011, ha ammesso che nel corso del 2015, centinaia di lavoratori avrebbero operato senza un effettivo datore di lavoro. Secondo i numeri ufficiali sono 465, tutti assunti con contratti «mascherati» dai quali è impossibile risalire ai responsabili della loro sicurezza. Per la legge giapponese sono irregolari.
Ma a Fukushima, dove l’emergenza è quotidiana — soprattutto a causa delle migliaia di tonnellate di acqua radioattiva che si accumula nel sottosuolo della centrale — la legge è un concetto relativo. La verità è che nessuno, al momento, può dire con sicurezza quanti siano i lavoratori illegali nella centrale nucleare.
Dal 2011, per monitorare la condizione dei lavoratori delle aziende appaltatrici Tepco distribuisce annualmente questionari di valutazione in cui vengono chiesti agli operatori dati sul tipo di contratto, sul datore di lavoro e un commento generico sulle proprie mansioni.
Durante l’indagine dello scorso anno, su 3268 lavoratori, calcolati al netto dei responsabili e dei dirigenti, 465 (circa il 14 per cento del totale) hanno risposto che l’azienda da cui prendono ordini è diversa da quella che li paga. Dopo ulteriori indagini tra le aziende appaltatrici è emerso che una parte di questi lavoratori è in regola. Ma i dubbi permangono. Sono alcune testimonianze di lavoratori, raccolte in queste settimane dalla stampa giapponese ad alimentarli.
A cominciare proprio dai questionari. «Qui si lavora in condizioni durissime», ha spiegato un lavoratore anonimo al quotidiano Mainichi Shimbun. «C’è chi è svenuto per la fatica e il caldo. Ma non ho potuto scriverlo». In alcuni casi, infatti, prima di arrivare a Tepco, i questionari compilati vengono consegnati in busta non sigillata ai responsabili dell’azienda responsabile dell’appalto o del subappalto. Anche a Fukushima sono i «caporali» a dettare legge. «Anche se i questionari sono anonimi, loro capiscono chi sei dalla grafia», ha spiegato ancora il lavoratore.
Che ci fossero irregolarità nell’assunzione e nella gestione dei lavoratori è un problema noto da anni. A ottobre 2013, la Reuters aveva pubblicato un reportage in cui raccontava delle condizioni di lavoro all’interno della centrale. Queste erano così riassumibili: bassi salari a fronte di rischi altissimi. In media i lavoratori intervistati potevano contare su uno stipendio compreso tra i 6 e i 12 dollari all’ora, cifre minime anche per un operaio edile.
I guai finanziari di Tepco, nazionalizzata nel 2012, hanno spinto in basso i compensi a dipendenti e appaltatori. L’urgenza di mostrare che il Giappone poteva ospitare le Olimpiadi del 2020 — del 2013 le parole del premier Shinzo Abe al Comitato olimpico internazionale: «A Fukushima è tutto sotto controllo» — ha fatto il resto.
Molti regolamenti e standard esistenti, di conseguenza, sono stati aggirati. Fukushima è diventata uno «stato d’eccezione». Dalla legge di agosto 2011 con cui il parlamento sbloccava dei fondi per i lavori di smantellamento e bonifica dell’impianto — il cui costo totale veniva stimato allora in 35 miliardi di dollari — venivano virtualmente escluse o aggirate norme vigenti in tema di diritti dei lavoratori.
I controlli sull’affidabilità dei contractor venivano ridotti al mimino: l’importante era mantenere costante il flusso di manodopera nell’impianto. Si è venuta a creare una piramide di appalti e subappalti alla base della quale si sono gonfiate sacche di illegalità che hanno fatto la felicità dei clan di malavita locale. Tra il 2011 e il 2013 i principali clan di yakuza hanno spostato a Fukushima oltre mille uomini per gestire il racket della fornitura di manodopera alla bonifica dell’area. A loro si sono appoggiate decine di piccole e medie aziende. Ai lavoratori viene promesso un compenso da cui gli intermediari trattengono una percentuale a proprio beneficio. In un caso recente, ad esempio, a fronte di una paga pattuita di 17,000 yen al giorno (circa 150 euro), un lavoratore se ne era visti assegnati appena 8,000 (circa 70).
Con il business della manodopera illegale si è ingrandito il numero di quelli che in Giappone sono conosciuti come gempatsu gypsy, zingari dell’atomo. Un fenomeno, questo, conosciuto almeno dagli anni 70, quando nel paese arcipelago sorsero i primi impianti nucleari. Fin da allora molti lavoratori nelle centrali nucleari del paese sono stati reclutati ai margini della società giapponese: un tempo, erano i quartieri ghetto abitati dai lavoratori giornalieri in grandi città come Tokyo e Osaka a fornire manodopera; oggi i punti di reclutamento sono sparsi in tutto il Giappone. Con l’emergenza a Fukushima, i «cacciatori di teste» hanno iniziato a reclutare anche senzatetto nelle grandi città della regione del Nordest del Giappone.
Arrivati nella zona dell’impianto di Dai-ichi, i lavoratori vengono sistemati in villaggi di prefabbricati a margine delle città confinanti con la centrale e sottoposti a ulteriori discriminazioni da parte dei pochi abitanti locali rimasti che imputano a loro il peggioramento della sicurezza nell’area.
Ma trovare manodopera disposta a lavorare a Fukushima continua a essere complesso. I compensi bassi, turni di lavoro massacranti e il rischio radiazioni tengono lontani lavoratori competenti e giovani. Così per i responsabili del governo e di Tepco il sistema piramidale degli appalti e delle forniture esterne di manodopera rimane l’unica via percorribile per la bonifica.
C’è poi un problema strutturale: il Giappone è un paese sempre più vecchio e così la sua manodopera. Dal 2015, in alcune mansioni in centrale sono entrati anche lavoratori stranieri. Sono una decina di cittadini brasiliani figli e nipoti di emigrati giapponesi. Hanno fatto ritorno al paese di origine dei loro avi per trovare un lavoro. Ma come molti dei loro colleghi a Fukushima sono stati costretti a vivere in un limbo di legalità.
«Quando sono entrato nel 2014 sono rimasto shoccato», ha spiegato ancora al quotidiano Mainichi Roney Tsuyoshi Ishikawa, un saldatore 43enne impiegato nell’assemblaggio delle cisterne di stoccaggio per l’acqua usata nei reattori per raffreddare il combustibile nucleare ancora lì presente. Erano fasi particolarmente concitate: ogni giorno bisognava assemblare quanto più possibile per far fronte alle perdite di acqua radioattiva da cisterne già installate.
Ma «Tutti intorno a me erano anziani o non addestrati. I lavori sembravano fermi» Dopo di lui sono entrati altri suoi connazionali. È stato Ishikawa, che intanto aveva lasciato il suo lavoro, a metterli in contatto con gli intermediari. La loro paga era poco più alta della media, ma a differenza di altri lavoratori regolari oggi rischiano di non ricevere indennizzi in caso di esposizione eccessiva alle radiazioni.
Il sospetto è infatti che anche loro siano entrati in centrale con «contratti mascherati». Sulla carta erano infatti lavoratori di una piccola azienda di saldatura di Tokyo, all’atto pratico, però, era qualcun altro a dar loro indicazioni.
«Noi siamo stati tra i primi stranieri, anche se di origine giapponese, a entrare qui», ha detto uno dei lavoratori brasiliani al Mainichi. «Ma sono certo che in futuro ce ne saranno di più».
[Pubblicato su il manifesto]