FreeVantablack – The beginning of infinity

In by Gabriele Battaglia

FreeVantablack è la nuova rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito. Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici. [A.R.]

The beginning of infinity di Yang Jian at White Space, Caochangdi
Negli insterstizi tra il linguaggio e l’infinito

Vito Acconci, artista concettuale, performer e figura storica e seminale dell’avanguardia newyorkese degli anni 60-70, tentò più volte di creare composizioni poetiche in cui parole e sintassi diventassero architetture. Acconci compose poesie in cui il suono della voce, il timbro e le parole nella loro posizione su un foglio o mentre erano declamate, evocavano relazioni spaziali, piani, volume ed altri elementi strutturali, stabilendo così una dimensione in cui architettura e linguaggio potessero esistere simultaneamente e rispecchiarsi l’uno nell’altra.
Quando poi, in seguito, divenne architetto e designer a tempo pieno, continuò e continua tuttora a ricercare questa corrispondenza poetica e strutturale, nel design di progetti altrettanto radicali.

The beginning of infinity, la mostra dell’artista cinese Yang Jian attualmente alla galleria White Space di Caochangdi (Pechino), appare un esperimento parallelo con alcuni forti punti in comune con la poetica di Acconci, malgrado le differenze estetiche, storiche e contestuali.
Come leggiamo nell’introduzione fornita dalla galleria:
«Questa installazione presenta, nella forma di un labirinto disegnato da un misterioso architetto anonimo che ha lasciato alcune note dietro di sé, un libro scritto da Yang Jian sul tempo, i percorsi e la “destinazione finale”».

L’inizio del nostro viaggio sembra portarci all’interno di un misterioso laboratorio scientifico il cui scopo e luogo geografico non sono pervenuti.
Il labirinto è costruito usando strutture di metallo simili a separée degli ospedali a cui siano stati appesi lunghi fogli traslucidi di plastica polimerica biancastra ed è piuttosto stretto: il passaggio è sufficiente per una sola persona.
Gli elementi strutturali sono freddi e muti.
Quasi a ogni angolo si possono leggere – su grandi fogli-parete – frasi, note e frammenti di idee che ci forniscono alcune delucidazioni sul processo di costruzione utilizzato dal fantomatico architetto e che, alternativamente, sembrano impersonare il flusso dei suoi pensieri o svolgersi a lato, paralleli.

La logica ripetitiva e severa del labirinto spinge il visitatore lungo un percorso specifico che, se potenzialmente si potrebbe sfidare e sovvertire (in fondo, i grandi fogli-parete sono soffici e si possono attraversare facilmente), in realtà esercita un intenso influsso psicologico che ri-orienta la nostra percezione provocando una sensazione di prigionia e di incapacità di sfuggire all’alterità di questo ambiente artificiale.

Durante il viaggio incontriamo vari oggetti e «cose»: alcuni informali, come una strana scultura composta da una pianta d’appartamento attorno a cui si arrotola una striscia di piombo; alcuni riconoscibili e metaforici, come una versione grigiastra in strisce di piombo, stracci colorati e nastro isolante del Coniglio Bianco di Alice; alcuni della vita di tutti i giorni o quasi, come un sinistro carrello medico di metallo usato, una lanterna montata su un tripode per misurazioni stradali e tre lampadine deposte sul fondo di un contenitore di ferro arrugginito. Ce ne sono poi di più «sculturali», come un’ampia lastra di piombo piegata ad angolo affinché si regga da sola, con un’ipad spento che sporge come da una ferita profonda nel piombo stesso, e poco oltre, una sezione parallelepipedica di gomma poliuretanica; ci sono anche un monitor agli infrarossi e un contatore elettronico montato a muro, su cui scorre il tempo che l’artista ha calcolato gli dovrebbe restare ancora da vivere (circa 42 anni).

A parte le parole dell’architetto anonimo, non esistono altri punti di riferimento o suggerimenti per orientarsi o interpretare la situazione, se non il labirinto stesso.
I materiali e gli oggetti sono gli elementi di questo vocabolario visuale silenzioso: reliquie industriali forse assemblate dalla mano di un creatore, forse solo abbandonate lì o messe assieme dal caso o da qualche passante senza un vero scopo.

Dal punto di vista puramente artistico la mostra è elegante e sofisticata; il talento plastico di Yang Jian orchestra sottilmente contrasti di superfici, colori, texture e volume, quasi senza allontanarsi mai dallo spettro variabile del grigio, del bianco e del nero, a cui si aggiungono alcuni piccoli tocchi di colori pastello (i pezzi di tessuto), il verdastro degli schermi e il rosso delle cifre digitali del cronometro.
Anche il modo in cui la luce viaggia nello spazio è interessante; attraversando e riflettendosi sulle varie superfici, cambia dal bianco diffuso dei fogli-parete, al nero assorbente della gomma vulcanizzata, al calore delle superfici di ferro e metallo arrugginite, fino al denso e ricco grigio-bluastro del piombo.

Da un punto di vista concettuale, Yang Jian riesce a materializzare una complessa interpretazione fisica e mentale dello spazio in cui il linguaggio stesso diventa la forma del labirinto; e questa forma è allo stesso tempo precisa e opprimente, ma anche indeterminata e sospesa tra una materialità diretta e presente e una proiezione onirica archetipica. Possiamo pensare di essere finiti in uno dei mondi creati da Borges, o in una delle città invisibili di Calvino, ma anche di diventare i protagonisti di un racconto di Philip K. Dick o di assistere a un lungo piano sequenza di Stanley Kubrick.

L’infinito proposto da Yang Jian cattura e disturba: il mondo è diventato linguaggio e questo linguaggio ormai disegna e seleziona il nostro spazio impedendoci di trovare qualsiasi via di fuga.
Il labirinto è quasi intangibile, leggero e traslucido e i suoi elementi strutturali possono facilmente spostarsi e riorganizzarsi in miriadi di configurazioni che appaiono innocue, ma che in realtà finiscono con l’occupare tutto lo spazio vuoto, senza alcun proposito a parte quello di impedire la vacuità stessa.

Il messaggio sembra essere che attraverso la produzione e distribuzione incontrollata di linguaggio concettuale, stiamo in realtà diventando prigionieri di una matrice che continua a riflettere e a riprodurre la propria complessità formale senza altro scopo che quello di proliferare all’infinito.
Questa presenza seduttrice e sofisticata, suggerisce sempre un «altrove» che come il canto delle sirene ci attira verso l‘ultimo naufragio; un naufragio però che non è un evento e non si concretizza mai, ma semplicemente continua ad erodere, ripetitivamente, come una forza inarrestabile, le tracce della nostra esistenza passata e la possibilità di quella futura, relegandoci ad un presente-limbo che si moltiplica, uguale, all’infinito.

Non ci sono tracce di umanità.
Gli oggetti industriali moderni e postmoderni che incontriamo diventano gli unici elementi con una qualità «organica», grazie alla loro natura, pur spettrale, di relitti di una civilizzazione e del suo inconscio collettivo.

Gaston Bachelard, ne «La poetica dello spazio», scrive:
«La casa del futuro è meglio costruita, più leggera e più grande di tutte le case del passato, in modo che l’immagine della casa da sogno sia l’opposto di quella della casa dell’infanzia». Yang Jian ci porta in questa casa-labirinto del futuro, ma ci lascia qualche elemento sparso che viene dalla casa dell’infanzia. Così, sentiamo che alcuni oggetti creati dall’uomo, con la loro patina di ruggine e ossidazioni, un loro peso che possiamo intuire, le loro forme familiari e il loro potere evocativo, sono più vicini a noi. Ed è quindi per noi più facile relazionarci a loro, piuttosto che alla logica inerente di dominio che è nascosta dietro il minimalismo senza vita degli elementi strutturali che costituiscono l’intero edificio simbolico.

Chi è l’anonimo architetto visionario? Il super ego dell’artista o solo una proiezione delle nostre delusioni intellettuali e di emancipazione (ormai automatiche) verso l’arte e l’architettura?
Forse la risposta è nascosta tra le pieghe e gli angoli di questo “anti-gesamtwerk” di Yang Jian, che ci fa venire in mente la strofa di una canzone troppo famosa: «You can check out anytime you like but you can never leave».

Yang Jian, The beginning of infinity
White Space, Caochangdi (Pechino)
23 aprile – 29 maggio, 2016

* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.