La mostra di Hao Liang a Ucca cerca di reinterpretare la classica pittura paesaggistica cinese, ma si traduce in una operazione ideologica di poco spessore. Alessandro Rolandi critica le nuova tendenza dell’arte «autoctona» cinese, dietro la quale si scorge l’immancabile «industria culturale di Stato». Per la sua prima mostra maggiore a Ucca, a Pechino, il pittore Hao Liang, la cui reputazione sta crescendo assieme al valore delle opere, ha investito una mole di energia notevole nel tentativo complesso e articolato di re-interpretare il concetto delle «Otto vedute di Xiaoxiang» con altrettante enormi tele a inchiostro su seta.
Al di là della geografia – Xiaoxiang si trova nello Hunan, dove il fiume Xiang incontra il lago Dongting— nel corso dei secoli, ben oltre la testimonianza del luogo naturale, le «Otto vedute» sono divenute un «soggetto» e un «concetto» abbordati da una lunga lista di famosissimi pittori letterati in Cina, Corea e Giappone.
Hao Liang si inserisce «ermeneuticamente» in questa lista con l’ambizione non solo di misurarsi con la tradizione, ma anche di riuscire a ridefinire la contemporaneità della pittura tradizionale di paesaggio cinese. È un sentiero pericoloso e cosparso di trappole di ogni tipo: tecniche, intellettuali, stilistiche, culturali, storiche e socio-politiche, non si può però negare all’artista né la possibilità di intraprenderla, né la legittimità di questo tentativo.
A ciò si aggiunge l’urgenza recente, da parte di una certa «fazione» di artisti cinesi, di definire un’arte contemporanea autoctona che, senza essere derivata da quella occidentale, riesca a sostenerne il paragone, mettendo però in risalto una concezione, una tecnica e un pensiero critico e stilistico profondamente e autenticamente «cinesi».
La domanda è: questa cosa è possibile? Che cos’è tradizionalmente e contemporaneamente cinese, oggi?
Le tele, di dimensioni ragguardevoli, sono presentate in maniera serissima e grave, all’interno di teche di plexiglass incastonate nei muri di carton gesso scuri, che disegnano appositamente un percorso architettonico museale concepito per incutere timore, insinuare un senso di intimidazione, e costruire un’aura, che enfatizzi il valore delle opere, della mostra, della ricerca e ovviamente dell’artista.
La luce è soffusa e bassa come nel caso di una mostra in cui fossero esposte opere su carta e seta antichissime, la cui esposizione eccessiva alla luce provocherebbe danni irreparabili. Hao Liang ha letteralmente costruito ciascuna delle sue otto tele con anni di ricerca accademica ed artistica spesi nell’analisi delle diverse soluzioni stilistiche e concettuali con cui dal decimo secolo in poi, maestri come Dong Yuan, Song Di, Muqi, An Gyeon, Soami, Wen Weiming, Kano Shoei e altri ancora si cimentarono con le «Otto vedute».
Accanto ad ogni tela e nell’introduzione fornita dal museo, sono spiegati i dettagli, i particolari e i riferimenti artistici, storici e stilistici delle centinaia di scelte che hanno portato l’artista cinese a ricomporre le sua veduta, utilizzando elementi dei grandi predecessori riadattati attraverso un pensiero moderno.
Siamo letteralmente introdotti nel procedimento preciso con cui queste opere sono state concepite e realizzate passo per passo: funzionando come dei puzzle-collage di elementi simbolici, concettuali, pittorici, tecnici, estetici, filosofici e fisici, ci dicono tutto di se stessi e di come dobbiamo leggerli, interpretarli e capirli. E in questa coerenza procedurale esasperata sembra identificarsi il loro stesso valore.
I dipinti sono eseguiti e messi in scena in maniera da comunicare un messaggio indiscutibile: questo nuovo giovane maestro si inserisce perfettamente nella grande tradizione e la fa transitare nella dimensione odierna mantenendone intatta l’identità culturale, proteggendola dall’inquinamento occidentale (ideologico, consumistico e coloniale) e proponendola come un’alternativa contemporanea cinese.
Senza essere un esperto di storia della pittura cinese (ma semplicemente avendo visto, letto e studiato e praticato per parecchi anni sia le tecniche e la sensibilità della pittura occidentale sia quelle della pittura orientale), prendo il rischio di dire che questo genere di operazione mi sembra non soltanto forzata, ma anche dogmatica e per questo pericolosa, in quanto partecipe di un più ampio tentativo di soft power, ancora rozzo ma visibile, per dare forma a un’arte al servizio dell’immagine che la Cina ufficiale vuole dare di se stessa al resto del mondo.
Il discorso avventurista con cui Xi Jinping ha apertamente preso posizione nei confronti delle arti e dell’architettura, criticando il fatto che gli artisti si stiano piegando al «puzzo» dei soldi e dell’estetica occidentale (dove qiguai – strano, bizzarro – riferendosi alle «costruzioni bizzarre» starebbe per modernismo occidentale) e promuovendo luna retorica da rivoluzione culturale secondo cui dovrebbero tornare alle campagne per riavvicinarsi e servire il popolo, è probabilmente riuscito a confondere nello stesso package ideologico così tanti elementi, ora potenzialmente sensati, ora assurdi, ora autoritari, ora distopici, da rendere il percorso e le scelte degli artisti cinesi (giovani e non) ancora più confuso e difficile.
Un po’ come accade per l’influenza e l’ispirazione del modello hollywoodiano sul cinema cinese (compreso il fatto che la Cina stia cercando di comprarsi Hollywood), artisti come Hao Liang ripropongono una versione a mio avviso aulica e accademica, ma sterile, svuotata di ispirazione e di poesia, di quello che fu uno dei pensieri e degli stili artistici più elevati dell’umanità. I dipinti di Hao Liang sono concepiti attraverso una fittissima rete di corrispondenze storiche formali, complicatissime, metodiche e verificabili (perchè sono proprio spiegate alla lettera una per una). Sono associati a tematiche e trend estetici contemporanei come l’idea della «mappa» (geografica, satellitare o della metropolitana) o quella della computer animation e della digital art. Portano la garanzia, il certificato ufficiale, con tanto di marchio d.o.c. di «opere tradizionali-contemporanee cinesi», ma non vanno oltre questo logo. Sono un compito pre-stabilito, non hanno una vita propria, indipendente, sono come formule matematico-filosofiche propagandistiche della superficie e della storia di qualcosa che in loro è assente.
Lo spirito, la filosofia e la visione del mondo espresse dai grandi maestri della pittura cinese e orientale in genere, a discapito del fatto che spesso si siano perpetrati attraverso la pratica della copia, hanno sempre e comunque mantenuto la capacità di creare opere estremamente ambigue, contraddittorie, profondissime e misteriose, concepite secondo criteri filosofici e vocabolari estetici precisi e rigorosi, ma realizzate con una sensibilità, una gestualità e un’intenzionalità sempre capaci di danzare con la spontaneità, la sorpresa, l’ebbrezza e la logica organica sfuggente e accuratissima del Wu Wei (il «non agire» taoista).
Nei grandi dipinti in mostra a UCCA, questa tensione e questo mistero non ci sono.
Se, facendo un esempio anche banale, Hao Liang avesse creato dipinti concepiti come animazioni in 2 o 3D ispirate alla tradizione della pittura cinese, l’operazione sarebbe stata più interessante, perchè il suggerire un passaggio dalla pittura a inchiostro all’animazione sarebbe stata un’idea intrigante che (almeno riguardo al medium) avrebbe avuto a che fare con la nozione del tempo e quella del movimento, da mettere in relazione alla trasformazione e all’ impermanenza dell’arte tradizionale.
La scelta di presentare opere talmente rifinite formalmente che sembrano quasi concepite al computer e stampate in alta definizione, come se fossero scrolls antichi più che un modo di creare un contrasto inatteso, sembra solo una forzatura al servizio dell’agenda precedentemente citata.
Con una mossa inconsapevole di auto-sabotaggio, all’ingresso della mostra, prima di incontrare le opere di Hao Liang, possiamo osservare una riproduzione-stampata (di buona qualità) di una delle «Otto vedute» realizzate dal grande Muqi.
è proprio il paragone tra quello che questa riproduzione ci trasmette del dipinto originale e ciò che ci viene poi trasmesso dalle grandi tele successive che ha nutrito ulteriormente il mio atteggiamento critico e sospettoso.
Il dipinto di Muqi – al di là della fama e qualità del grande maestro – è costruito attraverso una geniale capacità di pensare non lo spazio dipinto, ma quello vuoto, quello che non si vede, quello suggerito cioè, dalla disposizione sapiente dei vari elementi: montagne, acqua, imbarcazioni, personaggi e vegetazione.
Senza dipingerle, Muqi ci fa sentire l’aria, l’umidità e la foschia, ma anche lo stato mentale e la filosofia, di un paesaggio reale e immaginato allo stesso tempo. Le proporzioni e le distanze non sono scientifiche o prospettiche, ma emergono anch’esse dal vuoto, dall’assenza, dalle parti lasciate intatte della tela di seta.
Tutto è costruito da linee, che da lontano danno l’illusione della massa e della dimensione pitturale, ma che avvicinandosi appaiono sempre e comunque come linee, come una scrittura di segni e di ritmi gestuali.
La componente misurata e controllata e la concettualizzazione del paesaggio (che comunque nella pittura cinese non è mai dipinto dal vivo, ma ricostruito intellettualmente e filosoficamente, dopo il viaggio, attraverso la scelta di un preciso vocabolario tecnico-stilistico) esistono assieme al sentimento generale effimero di fragilità e fluidità, a uno sguardo sul mondo e sulla natura in cui consapevolezza e spontaneità, regola e libertà, si alternano senza mai imporsi a vicenda.
Nel dipinto di Muqi, ciò che non vediamo è finalmente ciò che ci tocca di più; c’è un mistero in quelle montagne e in quella composizione probabilmente molto simile a quella del maestro da cui aveva imparato e a cui egli stesso aveva deciso di ispirarsi riprendendo l’immagine per la sua veduta: quel mistero è il mistero di Muqi, quella forza inafferrabile che rende il dipinto profondamente originale ed unico.
Sfortunatamente, nei dipinti di Hao Liang la grande accuratezza tecnica, la passione accademica e la volontà intellettuale non diventano mai una cosa sola: contraddittoria, sfuggente, eppure tipica.
Le grandi tele sono piene di dettagli, la ricchezza dei quali appartiene al dominio dell’illustrazione e della citazione anziché dell’invenzione e dell’evocazione.
La palette è elegante e dosata, ma senza rischi, precisa ma non commovente; il modo in cui sia l’inchiostro nero sia quello colorato sono posati spesso copre la linea – la scrittura – rigettandola indietro, lontano, come per nasconderla o dissimularla.
Ciò che più mi colpisce nel messaggio implicito di questa mostra è che sembra cerchino di dirci che basta studiare bene la lezione e fornirne una nuova interpretazione abbastanza rigorosa, oggettiva e corretta, che mette d’accordo tutti, per creare un’opera d’arte e una corrente di pensiero.
Questa tendenza a oggettivare il modo in cui sia l’opera d’arte sia il pensiero devono essere concepiti e realizzati non riguarda solo questa nicchia cinese che ricerca il «nuovo classico»; da parecchi anni, accade anche nell’arte contemporanea occidentale in cui gli artisti sono sempre più formati e formattati dall’impronta dei college e delle università più famose e importanti, che ne dirigono la carriera in maniera strategica ed esclusiva, influenzando estetica, mercato, musei e gallerie in maniera sistematica e oligopolistica.
Se mi sono permesso di criticare troppo il lavoro di Hao Liang senza essere un esperto dell’ambito in cui si esprime, è perchè il mio obiettivo non è la qualità dell’expertise, ma propro questa nozione di expertise così chiusa su se stessa e autoreferenziale.
Il grande artista concettuale statunitense Lawrence Weiner, il cui lavoro non è per niente facile, più volte ha espresso dubbi su come un artista possa al medesimo tempo creare ed essere un critico e un esperto del proprio lavoro.
L’impegno della ricerca intellettuale, storica e tecnica di Hao Liang non è in discussione in sé; ma mi sembra importante sottolineare che per creare una grande opera d’arte tutto ciò non basta. Va bene studiare centimetro per centimetro l’opera di Muqi e, fonte per fonte, il suo pensiero. Quello che fa la differenza è lo sguardo di Muqi sul mondo.
Lo sguardo sul mondo non lo si impara da nessuna parte: lo si porta in se stessi e lo si nutre o meno; ma per nutrirlo bisogna guardarlo e viverlo, il mondo là fuori, e magari poi rifutarlo, ma non far finta che non ci sia e rifugiarsi nella nostalgia o nell’ideologia.
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito. «Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
*Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.