Di mestiere sono curatrici, non artiste, ma nel proprio lavoro mettono tutta la creatività e l’impegno che fanno di «Towards the emergence of Resistance» una mostra plurale ma coerente, stimolante e profondamente «politica». Taikang Space, uno dei pochi spazi pechinesi in cui la qualità delle mostre è raramente scesa al di sotto di standard elevati e che ha sempre fatto della qualità anziché della quantità il proprio cardine, propone attualmente un’intrigante mostra collettiva, parte del programma New Generation Curatorial Program, in cui 4 curatrici giovani si cimentano con la tematica cruciale del momento: in cosa consiste e come si può organizzare e articolare un’arte di resistenza.
La collettiva «Towards the emergence of Resistance» – titolo forse un po’ «smart» ma comunque piacevole nel suo anticipare e suggerire qualcosa che sta per succedere, anziché definire o ribadire o commentare su qualcosa che è già là – è curata da Yuan Fuca, Miao Zijin, Jo Wei, e Yao Mengxi, quattro giovani curatrici e critiche d’arte indipendenti dal profilo multiforme e complesso, esponenti dell’ultima generazione cinese formata tra la madrepatria e i migliori college europei, americani e stranieri in genere.
L’atmosfera in cui la mostra si è sviluppata e il modo in cui la collaborazione tra le quattro si è concretizzata appare dall’inizio meno «chiusa» e meno didattica di ciò che ci si potrebbe attendere dai giovani curatori in erba.
Le quattro sezioni differenti, anziché mettersi in competizione cercando di esprimere nel modo pià appariscente la firma di ciascuna curatrice o appiattirsi in un’unica mostra a consenso unico, riescono a instaurare un dialogo fatto di analogie sottili e confronti velati, in cui l’importante diventa davvero l’emergere di un qualcosa che non si ha troppa fretta di definire, di celebrare o di replicare, ma semplicemente di accompagnare, rivelandone le potenzialità e le contraddizioni, le esitazioni e gli affondi.
Yuan Fuca, classe 1988, di Changchun, formatasi alla Renmin University e alla School of Visual Arts di New York, nella sua sezione dal titolo «Disarming Charm» invita tre video artisti che esplorano la messa in atto della conoscenza attraverso l’estetica del corpo e degli affetti. Ciò avviene relazione alla psico-geografia dello spazio-tempo e alla possibilità da parte dell’arte di avere un’azione riparatrice e rigeneratrice del mondo, grazie a un livello di comunicazione ulteriore rispetto al linguaggio.
Miao Zijin, classe 1990, del Jiangsu, con una laurea al London College of Communication e un master a Goldsmiths, con «Make it wrong , till it’s right», crea una sezione dedicata all’arte processuale ed effimera. Spazia dall’intervento alla pratica sociale e al proto-attivismo, in cui i dubbi sul ruolo, la natura e l’effetto dell’arte che abbandona il cubo bianco e si immerge nella realtà della vita appaiono su una superficie ruvida e aspra che ne mette in evidenza l’importanza e l’attualità.
In particolare, nella serie di interventi effimeri nello spazio pubblico «Sayzheng», concepita e curata dall’artista Tianji Zhao in tre parti divise in tre anni, possiamo rivivere gli hutong attorno a Gulou, di notte, il mercato ormai scomparso di Rundeli e il parco di Tuanjiehu durante giornate in cui vari artisti, a sorpresa, hanno sovvertito poeticamente i ritmi e le narrative di questi luoghi con gesti diretti e dissonanti, sospesi tra un senso dell’assurdo beckettiano, un mistero buffo e sfuggente alla Dario Fo ed un’ironia provocatoria e mordace alla Lu Xun.
Jo Wei, classe 1985, dello Zhejiang, formata alla Fudan University con un master in biologia molecolare, con un’esperienza di ricercatrice nel programma del Guggeheim di NY, cura invece la sezione da lei intitolata «The Eye of representation», in cui attraverso le opere multimediali e installative di Wu Ding, Ren Ri e Liu Guoqiang, esplora il linguaggio della rappresentazione e le sue conseguenze sulla percezione visiva, attraverso il prisma scientifico filosofico della neuroscienza e delle molteplici connessioni ibride in cui l’arte si interseca con la psicologia, la scienza medica e la filosofia. La sua curatela, informata da metodi analitici e scientifici e dagli ultimi trend speculativi sul futuro dell’arte, riesce a presentare gli scenari in cui potrebbero evolvere le esperienze messe assieme nelle altre sezioni dalle colleghe.
Infine Yao Mengxi, classe 1985 da Shanghai, co-fondatrice nel 2014 dell’iniziativa indipendente Radical Space, già nel Young Curator Plan della Power Station of Art (PSA) e premiata con il terzo International Awards for Art Criticism per i suoi testi critici del 2016, ha deciso con la sua sezione «Emergency Action» di lanciare un appello imminente, riunendo tre artisti (Ce Zhenhao da Guanzhou, Tang Chao da Shanghai e Zheng Yuan da Chicago) a Caochangdi, nei dintorni di Taikang Space, e dando loro una settimana per girovagare e prospettare attività e idee in cui l’azione diretta e «forzata» in termini di immanenza e urgenza, provi ad inventarsi ponti improbabili tra una realtà che non si ha il tempo di conoscere e una necessità: quella della produzione di un’opera per una mostra, sul cui senso ultimo è difficile soffermarsi, presi come si è nel vortice dell’accelerazione.
Indagando sul valore del rischio, dell’incomprensione e della possibilità del fallimento, Yao Mengxi ci mette in guardia contro la tentazione di credere a una redenzione di qualunque tipo, implicita nella pratica artistica, che sia politica, spirituale o semplicemente ironica.
Senza soffermarsi troppo su una o più opere in particolare, (i linguaggi espressivi e i medium sono in fondo gli stessi che incontriamo nella maggior parte delle mostre di arte contemporanea), la «resistenza emergente» di questa solida mostra nasce proprio dall’atteggiamento attento ma non troppo calcolatore, dedicato ma volutamente non risolutivo e non dominante, con cui le quattro curatrici hanno saputo condividere e coordinare le proprie proposte: lasciar emergere non verità presunte o prefabbricate, ma azioni e testimonianze sottili e preziose, appena nate, che promettono percorsi non scontati e che avranno bisogno di altrettanta attenzione e sensibilità per potersi sviluppare.
Se ho deciso di presentarle in questo scritto in maniera un po’ formale – nome-cognome, data di nascita, città di origine e percorso di studi – è semplicemente perché, nella mostra che hanno saputo creare e curare, sembra che abbiano voluto consciamente evitare di mettere troppo in rilievo questi elementi personali e queste metodologie, per lasciare il proprio lavoro e quello degli artisti libero ed esposto nell’affrontare lo spazio fisico e l’incontro col pubblico, senza proteggerlo via pedigree e garanzie varie.
Sulla base coraggiosa di cui questa giovane generazione sembra farsi portatrice, credo che si possa ancora sperare di ricostruire il legame ormai spezzato da tempo, tra l’arte contemporanea e la vita.
La «resistenza» proposta da Yao Megxi, Jo Wei, Miao Zijin, e Yuan Fuca non sa di nostalgia, né di presunzione intellettuale, né di presunta chiaroveggenza o astruso idealismo. Va cercata, aiutata, protetta e accompagnata nel suo apparire a ogni angolo di strada e in ogni aspetto della vita che artisti e curatori motivati, curiosi e mossi da un desiderio forte e dalla ricerca di qualità non spettacolare, sapranno vedere e sentire.
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito. «Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.] *Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.