Filippine – L’orrore dopo il tifone Yolanda

In by Simone

Reportage da Tacloban, Filippine, dove la furia del tifone Yolanda si è abbattuta con più intensità. Venti a 300 km/h e onde alte sei metri hanno sventrato la principale città della zona, dove ora tra le macerie si procede al recupero di centinaia di cadaveri decomposti nel caldo tropicale.
ATTENZIONE: Alcune delle foto che abbiamo deciso di pubblicare potrebbero urtare la vostra sensibilità.

TACLOBAN – È il 19 novembre quando arriviamo sul posto, e un ragazzo sulla ventina sopravvissuto al disastro ci racconta di aver cercato rifugio in un palazzo in cemento in riva al mare: "Il vento ha distrutto le finestre, i vetri volavano come se fosse esplosa una bomba. Io mi sono infilato sotto un tavolo al terzo piano", racconta. Buon per lui che l’acqua si è fermata al secondo.

L’8 novembre scorso il tifone Yolanda è arrivato nel sud est delle Filippine e per Tacloban, la principale città della zona, è stata la fine. I dati non sono del tutto precisi, ma sembra che i venti abbiano superato i 300 km/h, sollevando un’onda – a tratti alta oltre sei metri – che prima ha travolto la lingua di terra dove si trova l’aeroporto e poi, attraverso la laguna, è arrivata sulla città vera e propria. In poche ore, della città che era stata uno dei più vitali centri turistici del Paese non sono restate che macerie. In molti quartieri nemmeno quelle.

Dopo dieci giorni la città sta iniziando a riprendersi, ma manca quasi tutto. Il cibo è razionato, l’acqua potabile scarseggia e di elettricità non se ne parla. Le ruspe lavorano in continuazione per rimuovere il ciarpame e ad ogni angolo polizia e soldati tengono i mitra bene in vista per scoraggiare eventuali sciacalli: i primi tre giorni di anarchia e furti hanno insegnato al governo che migliaia di uomini affamati e senza nulla da perdere sono difficili da controllare, specialmente se credono di poter trovare cibo e bottino fra le macerie dei negozi.

Il compito più ingrato spetta a chi deve recuperare i corpi delle vittime, che al 29 di novembre sono già oltre cinquemila. I locali affermano che nei giorni immediatamente successivi al disastro i corpi erano ovunque: per terra, incastrati sui rami, negli specchi d’acqua. Anche per i primi giornalisti ad arrivare sul posto non è stata una passeggiata. Si sono raccolti sulla collina che domina la città, accanto alla sede dell’amministrazione cittadina, e quando il vento soffiava dal mare dicono di aver dovuto sopportare un tanfo micidiale.

Oggi le cose vanno meglio, ma alle volte – soprattutto in periferia – l’aria si impregna ancora dell’inconfondibile odore dolciastro. Qualche ottimista potrebbe pensare che si tratti di un maiale, o di un cane. Più spesso è la vicina di casa, l’anziano che fumava sul ciglio della strada, il titolare del negozio di verdure. Giacciono tutti sepolti fra le stesse macerie, marciscono nel caldo tropicale.

Riesumare i corpi dalle loro tombe provvisorie è il compito dei vigili del fuoco, comandati dal Maggiore Rodrigo A Almaden Junior. Sulla quarantina, pancia pronunciata – segno che alle forze armate il riso non manca – e fronte sudata, il maggiore ci riceve nell’ufficio da dove dirige le operazioni: una casa con le finestre sfasciate e le pareti sporche di fango. "Questo non è il nostro compito. È la prima volta che ci troviamo in questa situazione", dice. "Lavoriamo in due gruppi: uno va alla ricerca di nuovi cadaveri, l’altro porta quelli trovati il giorno prima alla fossa comune fuori città". Secondo Tecson John S. Lim, l’amministratore della città, "in totale vengono ritrovati circa 100 cadaveri al giorno, senza contare quelli che si trovavano all’aperto sulle strade". All’identificazione pensa il Scene of the crime office (Soco), la polizia forense.

Abbiamo appuntamento la mattina del 20 novembre per seguire una delle operazioni sul terreno. Ma alle otto ci siamo solo noi, del maggiore non c’è traccia. Finalmente, dopo mezz’ora, un gruppo di oltre venti vigili del fuoco si riunisce di fronte al comando. Passa un’altra mezz’ora prima che i gruppi vengano formati, e poi ancora altri 10 minuti perché le mascherine e l’olio profumato da spalmare sotto le narici vengano distribuiti. Intanto si chiacchiera, e viene il dubbio che nelle critiche di scarso impegno mosse al governo ci sia del vero. Quando appare chiaro che per entrare in azione ci vorrà del tempo, chiediamo se le forze a disposizione siano sufficienti a svolgere il loro compito e, per tutta risposta, uno degli astanti ci consiglia di "tenere gli occhi aperti, il numero di persone non è così importante". Poi si volta e tace.

La farraginosità delle operazioni è evidente. Quando il gruppo si trasferisce in uno spiazzo in riva al mare – dove si ricongiunge con la polizia – il personale si aggira senza molto da fare intorno a un camion sul quale sono accatastate decine di sacche nere che racchiudono il “raccolto” del giorno precedente e che devono essere trasferite su un altro mezzo per essere portate alla fossa comune. Solo pochi, dati gli spazi angusti, possono salire sui mezzi e aiutare. La maggior parte gira a vuoto, chi parla e chi guarda la scena ammutolito. Tutt’intorno l’asfalto è sdrucciolevole, coperto da una sottile patina di grasso umano. Pioviggina.

A trasferimento completato il vigile del fuoco che ci aveva invitato a tenere gli occhi aperti vuole dire la sua e sbotta: "L’avevo detto che il numero degli uomini impegnati non è tutto. Sono le 9:45 e non abbiamo ancora fatto niente, avremmo già potuto raccogliere decine di corpi e invece siamo qui ad aspettare".

I cercatori entrano si mettono davvero a lavorare nella tarda mattinata, quando con un piccolo convoglio composto da tre automezzi prendiamo la strada per per il quartiere di San Josè. Ma non andiamo lontano, perché dopo poche centinaia di metri veniamo fermati da un gruppo di lavoratori abbarbicati su una pila di tubi in cemento che segnalano un vittima da qualche parte vicino all’acquitrino. I vigili del fuoco entrano in azione, trasportando ciò che resta di una giovane ragazza sul ciglio della strada.

Accanto è arrivata la madre, probabilmente consapevole che la figlia doveva essere da qualche parte nei paraggi. Un’altra donna si nasconde dietro alle sue spalle, tirandosi la maglietta su fino al naso e piangendo – alle poche urla iniziali si sostituisce prima un pianto sommesso e poi un’espressione di silenziosa incredulità. Quindi il corpo viene caricato e si riparte alla volta dell’aeroporto, dove una fila di sacche attende di essere aperta per l’identificazione.

Verdi, nere, bianche. Tutte sono allineate alle spalle di una costruzione – forse una scuola – mezza demolita, di fronte alla Cappella di San Michele Arcangelo. I corpi sono stati trovati giorni prima ma solo oggi c’è tempo per identificarli, e nel frattempo i vermi ne hanno approfittato. Sono sotto e dentro alle sacche, strisciano fuori dalle bocche e dalle orbite. E, sollevato un cadavere, si dibattono alla ricerca si nuovo ospite, frenetici nella loro opera di smantellamento.

Alcune delle vittime hanno fattezze riconoscibili, ancorché sfigurate dalla decomposizione. Di altre si può registrare solo il sesso e l’altezza, e in questi casi il personale della Soco interviene senza mezze misure, roteando un coltellaccio nelle bocche tumefatte per studiarne la dentatura.

L’impressione, osservando il lavoro che va avanti senza sosta, è che questo sia “business as usual”, un giorno come tanti altri: il medico legale ordina che una sacca venga aperta, fa girare il corpo davanti e dietro, misura e sentenzia: "Maschio, età 30 anni, nessun segno distintivo»; «donna, età 70 anni, nessun segno distintivo»; «uomo, 25 anni, tatuaggio". E così via.

Ma per chi non è abituato, la faccenda è dura da digerire. Secondo Rogelio De Logronio, uno dei vigili che prende parte alla missione, "la parte più difficile del lavoro è sopportare l’odore. E poi sono i posti dove si opera a essere complicati: i cadaveri sono spesso coperti dai detriti. Se tiri una spalla, per esempio, c’è la possibilità che il corpo si divida e una parte resti incastrata fra le macerie".

Graiger John Palamine, un altro pompiere, indica con espressione assente e occhi lucidi la costruzione principale: "Ne abbiamo trovati due lì dentro. Erano abbracciati, nonno e nipote. Hanno cercato scampo all’interno, ma l’acqua è arrivata al tetto". Tutti ripetono la stessa storia, la forza di Yolanda ha sorpreso perfino una città che di tifoni ne vede ogni anno. Il vice sindaco, l’Onorevole Jerry Samb Yaokasin, più tardi ci confermerà che molti erano rimasti a casa, "specialmente gli uomini, perché temevano che i loro beni fossero rubati dagli sciacalli. Ma la vita è più importante".

A sentire il Maggiore A Almaden il lavoro di ricerca sarebbe continuato a lungo. Ne abbiamo prova alcuni giorni dopo, la notte del 25, quando scendiamo in riva al mare con un collega per immortalare un falò fra le macerie. Troviamo due lavoratori della Mmda – l’agenzia governativa che si occupa dei lavori pubblici – accovacciati davanti al fuoco, mentre un terzo uomo, in abiti civili, ci fa segno di avvicinarci: un cadavere è giunto a riva e viene cullato dai flutti. Verrà issato sulla banchisa domani, ma noi non possiamo aspettare perché il coprifuoco scatta alle otto.

Mentre ce ne andiamo, il collega racconta che la prima notte dopo il tifone i due uomini sentivano "voci di persone che chiedevano aiuto e piangevano, ma non c’era nessuno nelle vicinanze". "Sarà stato il trauma" dice lui. "Sarà stato il trauma", rispondiamo noi. E ci allontaniamo velocemente verso la luce dei generatori sulla collina.

[Scritto per Linkiesta; foto credit: Michele Penna]

* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Dopo uno stage a China Files collabora su argomenti inerenti alla Cina con diverse testate in lingua inglese.