Il regista giapponese Yamashita Nobuhiro ha presentato al Far East Festival di Udine (dal 23 aprile al 2 maggio) il suo ultimo film, “La la la at Rock Bottom”. Tra strade e concerti alla periferia di Osaka il regista racconta con ironia e grazia due piccole storie del suo paese. Ne esce un ritratto di Osaka fuori dagli stereotipi. L’intervista e la recensione di China Files.
“La gente di Osaka sa come far ridere”, così il regista Yamashita Nobuhiro ci introduce al suo ultimo lavoro dal titolo La la la at Rock Bottom. Una commedia amara dove il quotidiano è in primo piano, sfigato e senza alcuna iperbole. I protagonisti, tutti degli anti-eroi, vivono le loro piccole vite, aggrappate a pochi punti fermi. Riescono a superare le difficoltà solo grazie alla testardaggine e alla passione per la musica. “La musica ha un valore catartico, è fatta per salvare i protagonisti e per convogliare la loro passione nella vita”, racconta il regista a China Files.
Sappiamo ben poco del protagonista, lo vediamo, al principio del film, malmenato e livido. Ha subito una violenza ma non siamo a conoscenza di chi la ha commessa né per quale motivo. Rialzatosi dall’asfalto, però, il protagonista si trascina nella piazza dove c’è un concerto e, l’unico gesto che è in grado di fare, è appropriarsi del microfono e cominciare a cantare. Così incontra la giovane Kasumi, fonico e manager della band sul palco.
Il protagonista rimane per lungo tempo solo un volto, senza nome. Ha infatti dimenticato tutta la sua vita. Kasumi lo accoglie in casa sua e nello studio di registrazione che gestisce. Il giovane, colpito da amnesia, viene chiamato Pochi (un nome tenero, kawaii) e diventa membro del gruppo musicale nel ruolo di front man.
I concerti del gruppo rivendicano l’ilarità circense e la mestizia delle periferie urbane. “I giapponesi sono spesso visti dagli stranieri come schivi e silenziosi, ma c’è anche tanto altro. Osaka ne è un esempio” ci racconta Yamashita Nobuhiro, che ci è nato. Ha ambientato il film nella sua città di origine proprio per offrire un’immagine diversa del Giappone: “fragrante per i colori affidati ai vestiti della band e per la verve da cabaret che emerge dalle performance”.
Il protagonista è Subaru Shibutani, il cantante della famosa boy band Kanjani Eight nella vita reale. In questo film sorprende per le sue doti di attore e si lascia alle spalle il mondo del pop. Mentre la giovane coprotagonista, Fumi Nikaido, si era già aggiudicata nel 2011 il premio Marcello Mastroianni a Venezia come miglior attrice. La band che fa da sfondo ai due protagonisti sono i veri Akainu, un gruppo a cui il regista è particolarmente legato e a cui affida quel tocco ironico di onesta teatralità che pervade l’interno lavoro.
Nel corso del film, in una digressione fatta di piccole scoperte, il protagonista si riappropria dei suoi ricordi, uno dopo l’altro, alcuni raccolti proprio dalla giovane Kasumi. Lo spettatore scopre così il losco passato di Pochi. Era un affiliato alla piccola mafia locale e per qualche sgarro l’ha pagata a bastonate. Ha lasciato la sua famiglia e un figlio, è andato in prigione e sembra non essersi pentito di nulla. Ma è di nuovo Kasumi, senza buonismo né troppo romanticismo, a ricondurlo alla sua nuova vita, anche solo per un ultimo concerto.
“Il film non vuole essere una critica né sulle gang locali, né sui giovani giapponesi persi nei loro mondi”, ci spiega il regista. Sono due micro-storie della periferia di Osaka. Spesso non c’è bisogno di alcun dialogo, si ride e ci si commuove, con una leggerezza sapientemente dosata, così rara da trovare.