«Gli ultimi re di Shanghai. La straordinaria storia di due dinastie dalle guerre dell’oppio alla Cina dei nostri giorni» del premio pulitzer Jonathan Kaufman (Treccani libri) racconta l’avventurosa ascesa dei Sassoon e dei Kadoorie
Sassoon e Kadoorie, origini bagdadine e in fuga da sempre fino all’approdo cinese, che all’epoca voleva dire Hong Kong quanto Shanghai, così vicine da rendere immediata e semplice una diversificazione del business quando gli eventi storici lo rendevano necessario. Famiglie sull’onda della Storia, quando però quest’ultima si fa tumultuosa, tragica e irriverente: dalle guerre dell’oppio, ai primi vagiti di un nuovo capitalismo all’ombra dell’Impero britannico, alla seconda guerra mondiale, l’invasione giapponese e poi la Cina comunista di Mao e quella capitalista di Deng, mentre sullo sfondo Londra prima controlla e poi cede Hong Kong. Una Storia fatta anche delle più rilevanti innovazioni dell’epoca, barche a vapore, telegrafo, telefono, senso per gli affari con una tendenza al monopolio, come nel caso dell’oppio, poca attenzione alla popolazione cinese rintanata fuori dalle Concessioni e impedita ad entrare nelle grandi opere architettoniche europee che resero Shanghai e Hong Kong due tra i luoghi più affascinanti del pianeta tra la metà dell’800 e i primi anni del ’900.
Una storia di grandi intuizioni, come quella di David Sassoon che per generare una forza lavoro fedele si inventò le «scuole Sassoon», «cioè l’equivalente di una città aziendale, studiata per attirare i profughi ebrei, prima da Baghdad e poi da tutto l’impero ottomano». Non solo perché il patriarca «fece da ponte tra le tradizionali pratiche commerciali del Medio Oriente e il nuovo sistema globale che si andava sviluppando sotto l’Impero britannico. Fare affari in Asia significava destreggiarsi in una guazzabuglio di pesi e misure, lingue e valute diverse. David impose l’uniformazione. All’interno della sue società gli impiegati lavoravano in giudaico- arabo (…) ma quanto alla corrispondenza con l’esterno David ordinò che le lettere a clienti, fornitori e altre società fossero scritte in inglese»
E IN SEGUITO, la storia diventa quella di un attivismo sfrenato per consentire a migliaia di profughi ebrei in fuga dall’Europa di salvarsi, seppure tra stenti e sofferenza, nella Cina senza tracce di antisemitismo. Ne Gli ultimi re di Shanghai – La straordinaria storia di due dinastie dalle guerre dell’oppio alla Cina dei nostri giorni (Treccani libri, traduzione di Margherita Emo e Piernicola D’Ortona, pp.352, euro 25), il premio Pulitzer e già corrispondente della Cina per Wall Street Journal e poi Bloomberg Jonathan Kaufman ritrae i principali protagonisti di questa epopea scandita dagli eventi storici che ne segnarono l’esistenza (e gli affari).
L’origine è la fuga: «L’uomo più ricco di Baghdad scappava a gambe levate per le strade buie della città – è l’incipit del libro – solo poche ore prima suo padre l’aveva riscattato dalla prigione dove i pascià turchi l’avevano rinchiuso, minacciando di impiccarlo se la famiglia non avesse versato un tributo esorbitante. Una barca lo attendeva per condurlo in salvo». Si tratta di David Sassoon, «il patriarca». Prima della fuga «gli ebrei di Baghdad si consideravano l’élite ebraica. (…) I Sassoon con i loro commerci in oro, seta, spezie e lana in tutto il Medio Oriente erano diventati i mercanti più ricchi di Baghdad».
DA LÌ ALL’INDIA e poi la Cina. Nella carrellata dei personaggi presentati da Kaufman emergono i grandi iniziatori dei successi delle famiglie, tra la volontà di arricchirsi e quella di un riconoscimento di cittadinanza da parte della Corona inglese. Famiglie ampie e in giro per il mondo (ma comunicanti in continuazione, tra il 1860 e il 1900 «gli otto fratelli Sassoon, che raramente vivevano nella stessa città, si scambiarono oltre seimila lettere»), il cui appiglio cinese pare riservato ai più intrepidi, ai caratteri che apparivano più riservati, o a quelli più eccentrici come Victor Sassoon, uno dei tanti Re Sassoon della città, forse quello capace più di altri di imprimere il suo marchio con la costruzione dell’albergo, il Cathay, tappa obbligata per Charlie Chaplin e uomini d’affari europei e cinesi, nonché edificio più alto della città.
Victor – a cui pochi all’inizio davano credito – amante delle feste, della bella vita, nonostante la camminata segnata da un grave infortunio e scappato dalla «sua» Shanghai per tempo (morirà nel 1961 per un infarto) salvò molti ebrei, pagando chiunque per consentire l’approdo ai fuggitivi e intavolando rischiose trattative con i giapponesi pronti a invadere la Concessione internazionale. Victor «si considerava un esperto di politica. (…) Riteneva di aver predetto correttamente il futuro dell’India e i problemi che l’ascesa di Gandhi avrebbe causato all’Inghilterra e ai capitalisti come lui. Nonostante i tumulti che scuotevano con regolarità il governo nazionalista (cinese, ndr) era convinto che spostare la sua fortuna a Shanghai fosse stata una mossa astuta. Proprio questo luogo, Shanghai, così affascinante e meta prediletta di miliardari europei, risultava però costruito sulle macerie di una popolazione, quella cinese, che moriva letteralmente per strada. I Sassoon e i Kadoorie, con centinaia di personale tra maggiordomi e camerieri, in realtà, i cinesi sembravano quasi non vederli, al contrario degli ospiti dei loro alberghi che talvolta dovevano scavalcare cadaveri ammassati a terra. Morti di fame, di inedia, di noncuranza.
Ma la Cina era soprattutto investimenti: edifici, società elettriche, infrastrutture, banche e potere. Una scalata dei «paria» ebrei fino a diventare elementi decisivi anche negli avvenimenti politici dell’epoca. Se Victor andrà via deluso («è la Cina che ha abbandonato me», dirà) e in perdita di tutti i suoi averi, chi era stato spodestato dai Sassoon e si era spostato per tempo a Hong Kong, come parte dei Kadoorie, vedrà invece premiata la propria lungimiranza.
IL CUORE DEL LIBRO e delle peripezie delle famiglie, però, è situato nel 1938, quando «la lussuosa nave passeggeri italiana Conte Biancamano approdò a Shanghai con a bordo più di centro ebrei in fuga da Germania e Austria». In questo frangente, per la prima volta nel corso del libro, appare un cinese con un nome e un cognome: si tratta di Ho Feng-Shan, che nel 1937 diventa console cinese a Vienna. È lui che riesce a procurare visti agli ebrei con destinazione Shanghai, prima poche decine, poi centinaia, infine migliaia di persone. E a Shanghai ad accoglierli c’era un cartello, «Benvenuti a Shanghai, non siete più ebrei ma cittadini del mondo, tutta Shanghai vi accoglie a braccia aperte», e l’alacre attività delle famiglie Sassoon e Kadoorie.
VICTOR, ad esempio, «mise a disposizione il piano terra di uno dei suoi grattacieli di lusso, l’Embankment House, come centro d’accoglienza per i profughi: a tutti si davano coperte, lenzuole, una gamella, una tazza e un cucchiaio». Un flusso continuo che porterà a chiedere aiuto economico alle famiglie negli Stati Uniti, e che toccherà il suo momento più drammatico durante l’occupazione giapponese, con la popolazione di profughi raccolti all’interno di un ghetto, fatto di sofferenze e fame, o nei campi di internamento di Chapei (dove furono rinchiusi i Kadoorie).
Alla fine della guerra, quando l’inferno di quanto accaduto in Europa diventerà più chiaro, il ghetto assumerà tutt’altra valenza: «All’improvviso tutto ciò che avevamo vissuto sbiadì al confronto, avrebbe scritto un profugo, la fame, la malattia (…) la povertà, niente aveva più importanza. Eravamo fortunati. Nessuno ci aveva ucciso con il gas. Avevamo la nostra vita, ma non era un buon motivo per festeggiare».
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.