L’espianto di organi sui detenuti della Falun Gong continua tutt’oggi. E’ la conclusione a cui è giunto il China Tribunal, organo indipendente istituito a Londra lo scorso anno per accertare l’attendibilità delle rassicurazioni con cui dal 2015 Pechino sostiene di aver bandito il prelievo degli organi dai condannati.
Nella giornata di lunedì 17 giugno, il panel di esperti diretto da Sir Geoffrey Nice QC, ex pubblico ministero del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, ha dichiarato di aver raccolto sufficienti elementi per confermare all’unanimità l’utilizzo sistematico degli espianti sui prigionieri di coscienza negli ultimi venti anni. Stando alle indagini – supportate a titolo gratuito da medici, testimoni e attivisti – non solo “non vi è alcuna prova che la pratica sia stata interrotta”. Il tribunale è persino convinto che le violazioni “stiano continuando su scala significativa”. Letteralmente: “la conclusione [delle ricerche] mostra che moltissime persone hanno perso la vita in modo indescrivibilmente orribile senza alcuna ragione, che altre potrebbero soffrire allo stesso modo e che tutti noi viviamo su un pianeta in cui estrema malvagità risiede nel potere di coloro che, per il momento, governano un paese con una delle più antiche civiltà a memoria d’uomo.”
Citando in maniera esplicita il coinvolgimento di “organizzazioni e individui sostenuti dal governo” cinese, l’inchiesta individua nelle minoranze etniche e religiose la categoria sociale più colpita. Una menzione particolare viene dedicata alla Falun Gong, setta spirituale che unisce i precetti buddhisti alla meditazione e semplici esercizi di qigong, messa al bando da Pechino negli anni ’90 a causa delle dirompente popolarità riscossa anche tra l’élite comunista. Secondo il tribunale, i praticanti della disciplina costituiscono la principale fonte di organi sul mercato nero. Meno chiara, invece, l’entità del coinvolgimento delle minoranze uigura, tibetana e cristiana, definite nel rapporto “vulnerabili”. Stando alle testimonianze rilasciate da uiguri e membri della Falun Gong, i detenuti vengono frequentemente sottoposti a visite mediche ed esami vari per accertarne lo stato di salute, sebbene non vi siano prove evidenti che i check-up siano funzionali agli espianti.
Il prelievo degli organi è stato per anni associato al sistema dei laogai, campi di lavoro in cui venivano internati condannati per reati minori e prigionieri di coscienza – secondo varie fonti – sottoposti a tortura e rieducazione politica. Pechino ha formalmente abolito la pratica nel 2013, ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani ne denunciano la sopravvivenza sotto nuove forme. Il caso più eclatante è quello delle “scuole di formazione” introdotte in chiave anti-terrorismo nella regione islamica del Xinjiang, dove stime indipendenti ritengono siano rinchiusi oltre 1 milione di uiguri. Pur non disponendo di prove definitive a riguardo, il China Tribunal conferma il “rischio” che anche i musulmani dello Xinjiang finiscano vittima degli espianti.
Quello dei prelievi forzati è un problema di vecchia data oltre la Muraglia. Per motivi di carattere religioso e culturale, nella Repubblica popolare, i donatori sono pochissimi, tanto che gli organi provenienti dai detenuti giustiziati hanno supplito per anni a circa due terzi delle operazioni. Sebbene la pratica sia stata ufficialmente vietata nel 2015, ad oggi non esiste ancora nessuna legge o regolamento che permetta di debellare completamente l’usanza.
Secondo stime del tribunale di Londra, ogni anno in Cina avvengono fino a 90.000 trapianti, decisamente più di quanto sostenuto dalle fonti governative, nel 2016 ancora ferme a quota 10.000. Invitato dalla Pontifica Accademia delle Scienze a partecipare al summit contro il traffico di organi, nel febbraio 2017 l’ex ministro della Sanità Huang Jiefu, oggi a capo della Commissione per la Donazione degli Organi cinese, ha ammesso che – nonostante la “tolleranza zero” – la vastità della popolazione cinese è tale da motivare una parziale violazione dei divieti.
Ciononostante, negli ultimi anni, gli sforzi messi in atto dalle autorità hanno portato a un incremento delle donazioni volontarie. Un fenomeno velocizzato dalla rivoluzione digitale intrapresa dal gigante asiatico. Stando al Washington Post, oltre 230mila persone risultano iscritte a un’app che attraverso Alipay mette in contatto donatori e destinatari compatibili.
Rispondendo alle accuse del China Tribunal, l’ambasciata cinese oltremanica aveva dichiarato ancora in corso d’indagine che “il governo cinese segue sempre i principi guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul trapianto di organi umani e negli ultimi anni ha rafforzato la gestione del sistema. Speriamo che il popolo britannico non si lasci ingannare da voci infondate”.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.