La vittoria travolgente con cui la presidente Tsai Ing-wen ha ottenuto un secondo mandato asfaltando il candidato nazionalista, Han Kuo-yu, è stata accolta con profondo risentimento in Cina e ostentato compiacimento negli Stati Uniti. A stretto giro dalla fine dello spoglio, il Taiwan Affairs Office (TAO), l’agenzia amministrativa cinese preposta alla gestione dei rapporti con l’ex Formosa, ha condannato “i tentativi separatisti”, ribadendo la necessità di perseguire una “riunificazione pacifica della nazione” – divisa fin dalla fine della guerra civile – attraverso la formula “un paese, due sistemi”. Quello stesso modello politico-economico contro cui Hong Kong protesta da mesi.
Il ministero degli Esteri ha ricordato come il voto non influirà sul riconoscimento internazionale del principio “una sola Cina”, il compromesso semantico che sotto le precedenti amministrazioni nazionaliste ha assicurato la convivenza pacifica tra le due sponde dello Stretto e le relazioni con il resto del mondo. Ma l’esito delle urne preannuncia nuove tensioni tra le due Cine e potenzialmente tutti quei paesi che intrattengono contatti informali con Taipei. Accusando Tsai e il DPP di aver “usato tattiche sporche come l’inganno, la repressione e l’intimidazione per ottenere voti, rivelando pienamente la loro natura egoista, avida e malvagia”, l’agenzia statale Xinhua ha attribuito il trionfo del fronte pro-indipendenza all’intervento di forze occidentali anticinesi.
Si sa, Pechino non tollera compromessi quando in gioco c’è la sovranità nazionale. Ma la questione taiwanese ha implicazioni simboliche che trascendono persino la crisi di Hong Kong e le pulsioni etnonazionalistiche dello Xinjiang. Come affermato da Xi Jinping lo scorso anno, l’unificazione delle due Cine è funzionale al raggiungimento della “rinascita nazionale” entro il 2050.
All’annuncio dei risultati, Tsai ha ribadito l’impegno a mantenere lo status quo, smentendo l’intenzione di perseguire un’indipendenza de iure, ma confermando implicitamente la propria contrarietà ad abbracciare il principio “una sola Cina”.
Assodata l’inefficacia delle pressioni messe in campo, come reagirà Pechino?
Mentre il trionfo di Tsai è stato sancito dalla graduale ripresa economica, il fantasma di un’annessione in stile hongkonghese ha inciso notevolmente sul risultato, grazie anche all’affluenza più alta delle ultime tre presidenziali (74,9%). In termini percentuali, Tsai ha guadagnato un solo punto rispetto al 2016 (57,1%). Ma i numeri assoluti sono da record e varcano per la prima volta la soglia degli 8 milioni di voti.
Le ritorsioni cinesi perdono mordente ora che l’economia taiwanese è meno dipendente dalla mainland grazie al massiccio rimpatrio degli investimenti, in parte motivato dalla necessità di aggirare le tariffe statunitensi sul made in China. Le minacce militari, d’altro canto, non solo si sono rivelate inutili ma hanno persino rafforzato il sostegno di Washington, che – pur in assenza di relazioni ufficiali – vede in Taiwan un tassello fondamentale nella strategia dell’Indo-Pacifico, l’alleanza che riunisce le principali democrazie della regione in chiave anticinese.
Mentre, con la vittoria ormai in pugno, Tsai potrebbe ammorbidire la propria posizione, sul fronte americano, l’imminente firma del trade deal rischia di incoraggiare i falchi della Casa Bianca. Nella giornata di domenica, Brent Christensen, rappresentante della diplomazia americana sull’isola, si è congratulato personalmente con la candidata progressista condividendo, come affermato dal segretario di Stato Mike Pompeo, la determinazione a rafforzare la partnership in virtù dei valori democratici condivisi.
Il modo in cui Washington passerà dalle parole ai fatti inciderà in maniera determinante sulle future contromosse di Pechino. Intanto, la riconferma di Tsai non ha mancato di attirare le critiche del web cinese, contrariato dalla strategia fallimentare adottata dal TAO. Persino la commissione disciplinare del Pcc ha bacchettato l’agenzia per non aver seguito correttamente la linea del partito. Un monito che potrebbe costare al suo responsabile Liu Jieyi la stessa fine del collega Wang Zhimin. Fino a pochi giorni fa direttore dell’ufficio di collegamento a Hong Kong, Wang è stato recentemente sostituito in chiaro segno di insoddisfazione per la gestione delle proteste anticinesi in corso da mesi.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.