“Like minded partners”. E’ questa una delle formule più utilizzate dal governo del Democratic Progressive Party guidato dalla presidente Tsai Ing-wen per definire i propri rapporti diplomatici sulla scena internazionale. Ma, mentre le elezioni presidenziali e legislative di Taiwan di sabato 11 gennaio distano solo alcune ore, vale la pena sottolineare che in merito alla propria politica estera il DPP, se riconfermato al potere dalle urne, ha margini di miglioramento.
L’EMANCIPAZIONE DALLA CINA
Il primo obiettivo annunciato da Tsai è sempre stato quello di emanciparsi dalla Repubblica Popolare Cinese, o meglio mettere le proprie risorse in diverse ceste, per riprendere una metafora utilizzata dal ministro Joseph Wu nell’incontro con la stampa internazionale che ha anticipato le elezioni. Per farlo, l’amministrazione Tsai (oltre a rifiutare il “consenso del 1992” e scatenare le ire di Pechino che ritiene Taiwan una propria provincia ribelle) ha lanciato la New Southbound Policy per intensificare i rapporti commerciali e di cooperazioni con l’area Asean e del Pacifico.
LA PERDITA DI ALLEATI DIPLOMATICI
Nel frattempo, però, al di là di qualche parziale miglioramento negli scambi commerciali coi paesi in riferimento (non comunque abbastanza per coprire l’enorme interscambio con la Repubblica Popolare), Taipei ha perso diversi alleati diplomatici. E gli ultimi due proprio nell’area del Pacifico, vale a dire Isole Salomone e Kiribati, che negli scorsi mesi hanno deciso di avviare le relazioni con Pechino riconoscendo dunque il principio dell'”unica Cina”. ù
I TIMORI SULLA SANTA SEDE
Appare dunque una ovvia conseguenza quella di provare a restare aggrappati ai pochi alleati ufficiali rimasti, a oggi 15, per sperare che qualcuno di loro ogni tanto presenti le cause di Taipei presso le organizzazioni internazionali. Ma il numero potrebbe assottigliarsi ancora di più in un prossimo futuro. Nonostante la calma ostentata a livello ufficiale, il governo taiwanese guarda con preoccupazione alle mosse della Santa Sede, con Bergoglio che, dopo lo storico accordo sulla nomina dei vescovi del 2018, negli scorsi mesi sembra sempre più vicino alla Cina tanto da aver espresso il desiderio di visitarla nel bel mezzo della crisi di Hong Kong.
Se il Vaticano passasse con Pechino potrebbe tirarsi dietro una lunga serie di paesi cattolici del Centro e Sud America, che rappresentano al momento la cintura più corposa delle relazioni diplomatiche ufficiali di Taipei: Belize (che tra l’altro va al voto il 1° novembre 2020), Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Paraguay, Saint Kitts & Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent and the Grenadines.
I RAPPORTI CON NICARAGUA E HAITI
A proposito di questa lista, ne fanno parte anche paesi che non sembrano proprio modelli di democrazia, come per esempio il Nicaragua. La situazione interna di Nicaragua, così come quella di Haiti, sembrano stridere con la formula dei “like minded partners” rivendicata da Taipei, che si propone come un modello di cooperazione win-win basata su principi democratici e sui diritti umani e civili. Paesi ai quali Taipei ha già riconosciuto (o sta provando a riconoscere come nel caso del Nicaragua) generosi assegni, nonostante le ripetute violazioni di questi diritti di cui Taiwan si propone come modello in Asia.
L’ACCORDO SUI RIFUGIATI DI NAURU CON L’AUSTRALIA
Eppure, come ha ricordato Nick Aspinwall su The Diplomat, ogni tanto alcuni di questi principi vengono superati per provare a ottenere maggiore riconoscimento internazionale verso alcune potenze regionali. Come per esempio nel 2017, quando Taiwan ha raggiunto un accordo con l’Australia per il trasferimento di rifugiati che avevano bisogno di cure mediche dai campi di detenzione offshore sull’isola di Nauru. Azione che aveva scatenato diverse polemiche in merito ai diritti internazionali dei rifugiati, con l’Australia che aveva sfruttato il bisogno di Taiwan a porsi come partner affidabile per scaricare una fastidiosa incombenza che non aveva potuto scaricare su altri paesi membri delle Nazioni Unite.
Appare dunque chiaro come, da una parte, l’amministrazione Tsai abbia aiutato alleati diplomatici ufficiali che non appaiono esattamente in linea con i principi democratici da lei proposti e, dall’altra parte, Taipei venga utilizzata da governi stranieri per risolvere faccende scomode, almeno nel caso dell’Australia. In questo modo Taiwan si espone al rischio di venire sfruttata da attori esterni per proprie strategie politiche.
I RAPPORTI CON L’ITALIA
Nella panoramica dei rapporti internazionali di Taiwan (per quelli con Cina e Usa leggere qui) trova spazio anche l’Italia, coi quali non esistono legami diplomatici ufficiali dal 1970. Esiste un ufficio di rappresentanza di Taipei a Roma (oltre all’ambasciata presso la Santa Sede) e un Ufficio di promozione economica, commerciale e culturale dell’Italia a Taipei. Nel nostro paese esiste poi un gruppo di amicizia interparlamentare di Taiwan, fondato da Lucio Malan di Forza Italia, di cui fanno parte esponenti di cui fanno parte esponenti di diversi partiti.
LA LINEA ANTI CINA DELLA LEGA E LA SFIDA CON FDI PER CONQUISTARE TRUMP
Ma particolarmente attivi negli ultimi mesi sono i membri del gruppo iscritti a partiti di destra, in particolare Lega e Fratelli d’Italia. A novembre una delegazione di parlamentari leghisti guidata dall’ex ministro Gianmarco Centinaio ha visitato Taiwan incontrando il vicepresidente, il ministro degli Esteri, il presidente del Parlamento e i viceministri di Economia, Giustizia e Salute. E nei prossimi mesi potrebbe tornare una nuova delegazione stavolta mista, con esponenti sia di Lega sia di Fratelli d’Italia.
D’altronde la Lega, da quando è passata all’opposizione, ha assunto una linea in politica estera di grande ostilità verso la Cina, nel tentativo di rientrare nelle grazie dei Repubblicani di Donald Trump dopo che il Savoinigate aveva rischiato di comprometterne l’affidabilità presso Washington. Ecco perché allora la Lega sta attaccando Pechino su tutti i fronti: 5G, Xinjiang, Hong Kong e, appunto, anche Taiwan. Dall’altra parte Fratelli d’Italia, pur non essendo un partito maggioritario come i partner sovranisti del Carroccio, potrebbe apparire meno compromesso agli occhi di Washington. D’altronde il partito di Giorgia Meloni è in ottimi rapporti con l’Ungheria di Orban, la Polonia di Kaczynski e il resto del blocco di Visegrad (tutti paesi vicini a Trump), non è vicina alla Russia di Vladimir Putin quanto la Lega di Matteo Salvini. E viene ritenuta meno ondivaga sulle questioni internazionali, mentre la mutazione genetica sovranista ha comportato qualche smottamento alla Lega, per esempio in merito alle rivendicazioni separatiste della Catalogna.
Ecco che allora anche Taiwan può diventare un campo di sfida non solo tra potenze globali ma anche tra i sovranisti italiani nella corsa al ruolo di partner principale dei Repubblicani Usa.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Affaritaliani]