Se doveva essere un referendum su Moon Jae-in, il presidente lo ha vinto in maniera netta. Le elezioni legislative della Corea del Sud si sono concluse con un risultato chiaro: fiducia al Partito Democratico. L’arma vincente, come previsto, è stata la gestione del coronavirus, che sta facendo parlare in tutto il mondo di “modello coreano”. Per la prima volta dal 2004, i liberali conquistano la maggioranza assoluta dell’assemblea nazionale, il parlamento unicamerale del paese. Il partito di Moon ha conquistato 180 dei 300 seggi, insieme al satellite Together Citizen’s Party. L’opposizione dello United Future Party si ferma a 103 con l’alleato Future Korea Party.
AFFLUENZA DA RECORD NONOSTANTE IL COVID-19
Numeri che vanno al di là anche dei primi exit poll, che già davano una vittoria indiscutibile ai democratici, e che arrivano attraverso un’affluenza del 66,2%, la più alta dal 71,9% del 1992 (in mezzo, prima del 58& del 2016 era sprofondata fino al 46,1% del 2008). Un record che arriva nonostante i timori legati alla pandemia da Covid-19, che non ha comunque impedito a 29,1 milioni di elettori (su 44 milioni) di recarsi alle urne, compresi 13.642 cittadini in auto isolamento (il 22,8% del totale) che hanno potuto votare con misure speciali tra le 17.20 e le 19.
VOTO SPACCATO TRA EST E OVEST. IL DERBY TRA POSSIBILI CANDIDATI PRESIDENTI VINTO DA LEE
La composizione dell’assemblea nazionale ne esce stravolta. Basti pensare che dal voto del 2016 il Partito Democratico aveva ricavato un vantaggio striminzito di un solo seggio contro i conservatori (123 a 122), di fatto riducendo l’azione riformatrice di Moon. La maggioranza ha vinto in 38 distretti su 49 della capitale, Seul, e nella stragrande maggioranza dei seggi delle province di Gyeonggi, Jeolla e Gwangju. L’opposizione ha invece prevalso nelle sue roccaforti di Busan, Daegu, Ulsan e Gyeongsang. Di fatto si è riproposta la divisione in due del voto, con l’ovest ai democratici e l’est ai conservatori. Era molto atteso il risultato della sfida nel distretto di Jongno a Seul, che vedeva di fronte due possibili candidati presidenti nel 2022: il democratico Lee Nak-yon e il leader dei conservatori Hwang Kyo-ahn. Ha avuto la meglio il primo, con il secondo che si è subito dimesso dalla carica di presidente dello United Future Party.
PLURALISMO MANCATO, ELETTI DUE DEFECTOR NORDCOREANI
Nonostante una riforma elettorale che, oltre a consentire per la prima volta il voto ai 18enni (540 mila, circa l’1,2% degli elettori totali), avrebbe dovuto favorire un maggiore pluralismo, il voto è rimasto polarizzato tra i due partiti principali, accentuando anzi questa tendenza. Nel 2016 erano andati a forze minori 55 seggi, mentre stavolta restano solo le briciole, se si escludono i partiti satellite delle due forze principali: 6 seggi alla sinistra del Justice Party, 3 seggi al People’s Party dell’ex candidato presidente Ahn Cheol-soo (molto critico con le politiche di Moon), 3 seggi all’Openminjoo Party, fondato da ex democratici. A secco il Minsaeng Party di Sohn Hak-kyu e il South-North Unification Party, fondato da un gruppo di disertori nordcoreani. A proposito di defectors, entra nella storia l’ex viceambasciatore di Pyongyang a Londra, Thae Yong-ho, che ha conquistato il seggio nel ricco (e pop, pardon k-pop) distretto di Gangnam tra le fila dei conservatori (meno dialoganti rispetto ai democratici con il regime di Kim). Entra in assemblea attraverso il voto proporzionale anche un altro nordcoreano, l’attivista per i diritti umani Ji Seong-ho.
I NODI IRRISOLTI DELLA PRESIDENZA MOON
Fino a poche settimane fa si pensava che Moon potesse diventare la classica “anatra zoppa”. Le sue promesse economiche erano state in buona parte inevase, così come l’ambizioso programma di redistribuire la ricchezza e dare una spinta propulsiva alla classe media. Nel 2019 la crescita è stata la più bassa del decennio, fermandosi al 2%. L’aumento del salario minimo non ha risolto il tema della disoccupazione, ancora ampia soprattutto tra i giovani, né quello della profonda disuguaglianza tra uomini e donne. Basti pensare che nel 2019 il 79% delle giovani donne (e il 72,1% dei giovani uomini) vorrebbero lasciare la Corea del Sud. E anche sotto il profilo della lotta alla corruzione, cavallo di battaglia obbligato della campagna elettorale per le presidenziali del 2017 dopo l’impeachment della ex presidente Park Geun-hye, c’era qualche perplessità dopo il caso che ha portato alle dimissioni del ministro della Giustizia Cho Kuk.
SEGNALE IMPORTANTE PER LE PROSSIME ELEZIONI: SANITA’ IN CIMA ALLE PRIORITA’
Invece la brillante gestione dell’emergenza pandemica, con la quale il governo ha saputo contenere la diffusione (grazie anche a un primo focolaio molto vasto ma piuttosto concentrato nella città di Daegu) facendo ampio ricorso alla tecnologia e all’alta diagnostica senza imporre misure eccessivamente restrittive, hanno ribaltato la situazione. L’opposizione si è giocata la carta del rischio “autoritarismo”, parlando delle numerose restrizioni della privacy. Non è bastato. Segno che, oltre all’importante ruolo del soft power derivante dal riconoscimento internazionale dell’approccio al virus, la maggioranza degli elettori mette in cima alla lista delle priorità la sicurezza sanitaria. Un segnale importante che potrebbe fare scuola anche per le prossime elezioni al tempo del Covid-19, magari a partire da quelle statunitensi.
POLITICA INTERNA: EXTRA BUDGET E LOTTA AI CHAEBOL, NIENTE RIFORMA COSTITUZIONALE
A proposito di Usa, l’ampia vittoria mette Moon in una posizione di vantaggio nella gestione non solo della politica interna ma anche di quella estera. Che cosa ci si può aspettare dagli ultimi due anni del suo mandato presidenziale? Partiamo dal fronte interno. Non ci saranno ostacoli per l’approvazione di un extra budget per contrastare gli effetti del virus, che si faranno sentire anche e soprattutto sotto il profilo economico. È presumibile che Moon giocherà con più carte in mano la sua sfida ai cosiddetti chaebol, i grandi conglomerati a guida famigliare che caratterizzano l’ecosistema industriale sudcoreano. Veri e propri colossi che hanno spesso condizionato la politica del paese, basti pensare allo scandalo che ha di fatto concluso la vita politica (e di libera cittadina) della ex presidente Park. Tutto sarà però condizionato anche dall’andamento dalla pandemia e dall’andamento economico globale. Quello che Moon non potrà fare è invece la riforma della costituzione, per la quale c’è bisogno di due terzi dei voti.
POLITICA ESTERA: POSSIBILE RILANCIO DEL DIALOGO CON LA COREA DEL NORD
Per quanto riguarda il fronte diplomatico, Moon potrà provare a rilanciare il dialogo con la Corea del Nord, forse il suo più grande obiettivo. Dopo il fallimento dei negoziati di Hanoi, in Vietnam, tra Donald Trump e Kim Jong-un, l’avvicinamento si è improvvisamente interrotto. Negli scorsi mesi Pyongyang è tornata a eseguire numerosi test missilistici, l’ultimo dei quali proprio alla vigilia delle elezioni sudcoreane, che sono cadute proprio nell’anniversario della nascita di Kim Il-sung, fondatore della Repubblica Popolare di Corea. Moon tenterà di riavviare i lavori, puntando sulla cooperazione sanitaria. Ma a essere decisivo per il riavvio del dialogo potrebbe essere più la Cina che non gli Stati Uniti. Le giravolte di Trump non sono piaciute a Kim, i cui incontri con Xi Jinping si sono intensificati negli ultimi anni, con tanto di ricevimento in pompa magna del presidente cinese a Pyongyang nel giugno 2019.
IL RIAVVICINAMENTO ALLA CINA
I rapporti diplomatici con Pechino sono nettamente migliorati dopo la crisi del 2017, quando la Corea del Sud firmò l’accordo per l’installazione del sistema di difesa missilistico americano Thaad. La Cina è il primo partner commerciale di Seul, che nel 2018 ha avuto una bilancia favorevole con oltre 162 miliardi di dollari di export e più di 106 miliardi di dollari di import. La visita nella capitale sudcoreana di Xi è stata rimandata a causa della pandemia ma il dialogo prosegue spedito, come dimostra l’invio di materiale sanitario per 5 milioni di dollari a Wuhan da parte di Moon a inizio crisi. Cosa che, insieme al mantenimento dei collegamenti aerei, non è che fosse piaciuta particolarmente ai cittadini sudcoreani, che hanno in maggioranza ancora un’opinione negativa della Cina. Non a caso una petizione per chiedere l’impeachment di Moon, nata proprio per le sue politiche considerate troppo “pro cinesi”, ha raccolto oltre un milione e mezzo di firme.
LE CREPE NELL’ALLEANZA CON GLI USA DI TRUMP
Il presidente sudcoreano assume anche una posizione di maggiore forza nell’ormai estenuante negoziato con gli Stati Uniti per le spese di difesa. Dopo il prolungamento di un solo anno dell’accordo scaduto alla fine del 2018, che ha visto un innalzamento dell’8% del contributo di Seul a Washington, non si è mai giunti alla nuova stretta di mano. Trump chiede “almeno” di quadruplicare l’attuale cifra di circa 900 milioni di dollari per il mantenimento dei circa 28 mila e 500 soldati statunitensi presenti. Una richiesta che era impossibile da accettare in campagna elettorale, vista la crescente insofferenza dei sudcoreani per le richieste militari statunitensi. A incrinare il rapporto tra i due storici alleati c’è anche l’ostilità nei confronti dell’ambasciatore Harry Harris, di madre giapponese, i cui baffi ricordano a diversi cittadini quelli dei dominatori giapponesi. Tempi mai dimenticati e ancora adesso al centro di uno scontro diplomatico (e di una guerra commerciale) con il Giappone di Abe Shinzo. Quello che è certo è che Moon ha vinto il suo referendum. Ora può davvero governare.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.