La National Democratic Alliance (Nda), la coalizione guidata dal BJP, ha vinto le elezioni. Ma è stata una vittoria risicatissima, molto al di sotto delle aspettative che in questi mesi Modi in persona aveva alimentato accentrando l’intera campagna elettorale su di sé. Il commento di Matteo Miavaldi da Varanasi nell’ultima puntata della rubrica Elefanti a parte.
Le scorse settimane ho seguito l’ultima fase delle elezioni indiane da Varanasi, la città più sacra dell’induismo e tra le mete più visitate dai pellegrini di fede hindu.
Avevo scelto di stare proprio lì, e non in una delle grandi megalopoli indiane, perché come molte e molti ero convinto che l’esito di questa tornata elettorale sarebbe stato un trionfo per il Bharatiya Janata Party (BJP), per il premier Narendra Modi e, più in generale, per l’ultrainduismo di governo che da dieci anni amministra a livello nazionale il Paese più popoloso del mondo.
Pensavo non ci fosse miglior punto d’osservazione del centro della devozione hindu per essere testimoni della Storia, tra l’altro in una città che è anche seggio d’elezione dello stesso Modi, che da dieci anni qui ha strapazzato tutti gli avversari e rappresenta proprio Varanasi in parlamento.
Ecco, in effetti la Storia si è scritta, ma è stata una Storia che quasi nessuno si aspettava.
La National Democratic Alliance (Nda), la coalizione guidata dal BJP, ha comunque vinto le elezioni. Ma è stata una vittoria risicatissima, molto al di sotto delle aspettative che in questi mesi Modi in persona aveva alimentato accentrando l’intera campagna elettorale su di sé.
I temi del discorso pubblico sono stati principalmente tre, e per alcuni sono stati coniati anche degli slogan con cui la propaganda governativa ha martellato l’elettorato senza sosta.
Uno era “Modi ki guarantee”, cioè “garantisce Modi”. Ovvero, votate per lui perché solo con la sua leadership l’India potrà continuare a svilupparsi e ad avvicinarsi all’obiettivo di diventare una vera superpotenza globale: “parola di Modi”!
Un altro, per cui evidentemente lo slogan sarebbe stato ridondante, è stata la minaccia che la minoranza musulmana, in combutta con le opposizioni, rappresentava per la maggioranza hindu del Paese. Una teoria del complotto secondo cui la comunità musulmana (che conta 210 milioni di persone) in caso di vittoria delle opposizioni avrebbe depredato la comunità hindu (1,1 miliardi di persone) delle loro ricchezze, delle loro tradizioni, del loro orgoglio identitario.
E questo è un tema su cui Modi si è speso parecchio in questi mesi, dando pubblicamente ai musulmani indiani degli “infiltrati” e descrivendoli come delle specie di parassiti del welfare sociale in quanto gente “che fa più figli degli altri”.
Per il terzo tema uno slogan c’è stato, “400 paar”, e con ogni probabilità ha rappresentato l’errore più grande commesso dalla macchina del consenso del Bjp.
Con “400 paar” (qualcosa come “puntiamo a 400” o “superiamo i 400”) il Bjp ha fissato pubblicamente l’obiettivo molto ambizioso di raggiungere quota 400 seggi di coalizione, su 543 complessivi. Un numero che avrebbe dovuto permettere alla Nda di poter mettere le mani sulla costituzione indiana e imprimere una svolta fondamentale nell’assetto repubblicano: trasformare la democrazia indiana pluralista, multi culturale e multiconfessionale in un “hindu rashtra”, una “nazione indiana” in cui la maggioranza hindu avrebbe goduto costituzionalmente di maggiori diritti rispetto a tutte le minoranze religiose. Non proprio un regime teocratico tipo l’Iran, ma qualcosa di ibrido e controverso come la concreta disparità di diritti tra cittadini ebrei e cittadini non ebrei d’Israele.
L’obiettivo del “400 paar” era sembrato a portata fino al giorno della conta dei voti, anche grazie agli exit poll divulgati da tutti i media nazionali che davano alla Nda un vantaggio gigantesco sulla coalizione Indian National Develompmental Inclusive Alliance (INDIA) guidata dal partito del Congress di Rahul Gandhi: tra i 370 e i 400 seggi per la maggioranza di governo contro poco più di 100 per le opposizioni.
Quando la sera del 4 giugno sono usciti i risultati definitivi, l’India e il mondo hanno scoperto che la realtà era molto, molto meno lusinghiera nei confronti dell’operato di Modi di questi dieci anni. E l’immagine simbolo di questa realizzazione collettiva è andata in onda in diretta su India Today, durante la maratona elettorale del canale all news in lingua inglese.
Pradeep Gupta, il sondaggista capo di Axis My India che aveva predetto per la coalizione di maggioranza un risultato vicino ai 400 seggi, quando iniziano ad arrivare i primi risultati definitivi non ce la fa più e scoppia a piangere per la vergogna.
Considerando che queste elezioni si sono svolte in un contesto mediatico totalmente avverso alle opposizioni, con leader politici che hanno fatto campagna elettorale dal carcere, conti bloccati dalle autorità giudiziarie e una differenza di soldi da spendere per la campagna elettorale siderale tra il ricchissimo Bjp e tutti gli altri partiti, la coalizione delle opposizioni ha raggiunto un risultato eccezionale: 233 seggi complessivi, 99 al Congress di Rahul Gandhi, 37 del Samajwadi Party di Akhilesh Yadav, che ha spazzato via il Bjp dall’Uttar Pradesh (lo stato più grande, popoloso e povero del Paese, roccaforte della destra hindu dal 2017) e ha addirittura vinto il seggio simbolico di Ayodhya, la città dove lo scorso gennaio Modi in persona aveva inaugurato un grande tempio hindu costruito sulle macerie di una moschea rasa al suolo dagli estremisti hindu nel 1992.
La Nda guidata da Narendra Modi alla fine ha totalizzato 293 seggi, cioè un centinaio meno di quelli che si aspettava, e il Bjp per la prima volta dal 2014 non è riuscito a raggiungere da solo la maggioranza in parlamento. I seggi vinti dal partito sono stati 240, molto peggio del 2019 e nemmeno abbastanza per fare il governo da solo, come aveva fatto sia nel 2014 sia nel 2019.
La botta è stata enorme per il Bjp e per chi lo ha votato, ed è stato evidente proprio qui a Varanasi, dove Modi ha vinto anche quest’anno ma dove, a risultati ufficiali pubblicati, nessuno ha festeggiato. Niente caroselli, niente cori, niente gioia incontenibile per il trionfo di un leader che qui non solo viene votato, ma viene proprio adorato.
l netto del discorso della vittoria che Modi ha comunque pronunciato al quartier generale di New Delhi nella serata di martedì 4 giugno, una cosa era chiara a tutti, dentro e fuori Varanasi: il Bjp aveva vinto le elezioni, ma Modi che le aveva personalizzate così tanto per la prima volta ha dovuto incassare una sconfitta personale, pubblica e anche emotiva.
Governerà ancora, ma niente sarà più come prima.
IL PROBLEMA DI IMPARARE A METTERSI D’ACCORDO
Modi è un accentratore seriale al limite dell’egomania. Un leader che fin dai tempi del governo locale in Gujarat, cioè gli inizi degli anni Duemila, ha sempre interpretato la gestione della cosa pubblica come un fatto squisitamente personale.
I suoi consiglieri fedeli si contano sulle dita di mezza mano: Amit Shah, braccio destro dai tempi del Gujarat, e Ajit Doval, ex pezzo grosso dei servizi segreti e punto di riferimento per le questioni di sicurezza interna ed esterna.
Le decisioni più importanti per Modi non devono essere prese collegialmente, sentendo le opinioni informate di persone presumibilmente più versate di lui si argomenti talvolta anche molto tecnici; sono performance personali da gestire in chiave “colpo di genio” o “masterstroke”, il capo onnisciente che vede prima e meglio degli altri le soluzioni ai problemi del Paese e le impone al popolo adorante.
È successo con la demonetizzazione del 2016, salutata come un colpo da maestro e invece rivelatasi un disastro di proporzioni enormi; è successo col primo lockdown durante la pandemia, annunciato alle otto di sera per la mezzanotte mandando in tilt un miliardo di persone e contribuendo a diffondere il Covid anche nelle aree rurali del Paese, prese d’assalto da lavoratori migranti che hanno abbandonato in fretta le megalopoli dove erano impiegati senza tamponi o misure di prevenzione del contagio.
La composizione della maggioranza figlia di queste elezioni con ogni probabilità non permetterà più colpi di testa simili. Perché Modi e il Bjp sanno che si potrà andare avanti a governare solo tenendo buoni i soci di minoranza della Nda che, coi loro seggi, eserciteranno un ricatto costante all’opera di governo nazionale da qui in avanti.
Sono Nitish Kumar del Janata Dal (United), vecchia volpe della politica del Bihar, e Chandrababu Naidu del Telugu Desam Party, il leader che ha stravinto le elezioni nell’Andhra Pradesh.
Sono due persone che notoriamente non condividono l’ultranazionalismo hindu che è il tratto distintivo del modismo di questi dieci anni, e che quindi per non far cadere il governo dovranno essere adeguatamente ricompensati e considerati.
La stampa indiana ha salutato questo “new normal” come il ritorno della cosiddetta “coalition politics”: una politica molto più faticosa, per chi governa, che potrebbe anche rallentare alcuni processi decisionali proprio perché non c’è più “un uomo solo al comando”.
Da fuori, questa mi sembra un’ottima notizia per le sorti della democrazia indiana.
Chi dava la democrazia indiana per quasi spacciata – io compreso – ha fortunatamente dovuto ricredersi. E questa è stata una bella lezione impartita a tutte e tutti dall’elettorato indiano, che davanti alla minaccia di una svolta autoritaria nel segno del motto “400 paar” ha dimostrato che gli anticorpi democratici del Paese sono in ottima salute e che dietro alla propaganda asfissiante del modismo c’era, c’è sempre stata e c’è un’altra India che pretende un futuro diverso da quello promosso dalla destra hindu.
LA BATTAGLIA PER L’HINDU RASHTRA CONTINUA
Se fossimo a Hollywood, adesso scorrerebbero i titoli di coda coi violini e le schermate del “com’è andata a finire”, con la giustizia che vincit omnia e i semi della pace e dell’unione tra le diverse comunità religiose che tornano a germogliare laddove il nazionalismo hindu aveva fatto terra bruciata.
Solo che non siamo al cinema, siamo in India, e le cose sono ancora una volta un po’ più complicate di così.
C’è un dato che mi ha colpito molto, e su cui vale la pena ragionare.
Nel 2019 il Bjp aveva raccolto il 37,3% di tutti i voti espressi; quest’anno, ne ha raccolti il 36,6%.
Significa che la fetta di persone che ha voluto confermare la leadership di Narendra Modi è rimasta sostanzialmente invariata e che quindi, nonostante la rappresentanza in parlamento della destra hindu sia molto ridimensionata, nel Paese il consenso per il Bjp è ancora molto alto.
Questo ci dice che la vittoria dimezzata di Modi alle urne è stata frutto di un’oculata architettura elettorale orchestrata da Rahul Gandhi, che assieme ai molti alleati dei partiti regionali in tutto il Paese è riuscito ad appianare le divergenze e ad accordarsi per non disperdere il voto anti-Modi come invece era stato fatto in passato.
Ma ci dice anche che tra la gente l’ambizione del massimalismo hindu è ancora estremamente diffusa. Non dico che tutti quelli che hanno votato Bjp nel 2019 e nel 2024 non vedano l’ora di vivere in un Paese dove le minoranze religiose – soprattutto quella musulmana – siano legalmente ridotte a una cittadinanza di serie B.
Ma è vero che tutte le persone che fremono per la creazione di questo “Hindu Rashtra” hanno ribadito col proprio voto al Bjp che quella è la strada giusta da percorrere per l’India di domani.
Ed è un obiettivo che, per loro, è solamente rimandato a data da destinarsi.
A cura di Matteo Miavaldi