proteste

Elefanti a parte – Proteste, rap e operai incapaci

In Elefanti a parte by Matteo Miavaldi

In questa puntata di Elefanti Matteo Miavaldi proverà a fare una rassegna di alcune delle questioni aperte che il governo Modi dovrà cercare di affrontare nelle prossime settimane. Si tratta di proteste vecchie e nuove tutte interne alla società indiana e di questioni delicate, da maneggiare con cura, in cui l’India si è ritrovata invischiata a causa delle scelte geopolitiche operate negli ultimi anni.

UNA GUERRA CIVILE TRA LE SETTE SORELLE DEL NORDEST

Iniziamo dallo stato del Manipur, una delle “sette sorelle” che compongono il nordest dell’India, dove dal mese di maggio del 2023 – cioè quasi un anno e mezzo – è in corso un conflitto tra il gruppo etnico dei kuki (la minoranza che vive nelle colline, soprattutto cristiana) e dei meitei (la maggioranza delle pianure, soprattutto hindu). Ne avevo parlato su Instagram all’inizio dell’anno convinto che la gravità della situazione avrebbe portato a un intervento risolutivo da parte del governo federale. Per capirci: a un certo punto una milizia estremista hindu chiamata Arambai Tenggol ha iniziato ad assaltare le stazioni di polizia del Manipur, svaligiando le armerie di Stato, e ha preso in ostaggio una trentina di parlamentari locali obbligandoli a giurare solennemente di implementare un programma di governo in sei punti che avevano scritto loro.

Nove mesi dopo siamo ancora punto a capo. Le proteste nello Stato continuano e negli ultimi giorni si sono addirittura intensificate, in seguito a un raid di droni armati organizzato, dicono le autorità del Manipur vicine al governo Modi, dalle milizie kuki, che però negano.

Dall’inizio del conflitto sono morte 225 persone. Gli sfollati in fuga dalle violenze sono più di sessantamila. 

I CONTADINI CONTINUANO A PROTESTARE

Dall’altro lato dell’India settentrionale, siamo al confine tra Haryana e Punjab, la protesta dei contadini si è riaccesa. I braccianti stanno manifestando a intermittenza dalla fine del 2020 – cioè da quattro anni – contro la liberalizzazione del mercato agroalimentare che il governo aveva cercato di imporre senza nemmeno consultare le sigle sindacali. Una prima vittoria era arrivata nel novembre del 2021, quando il governo Modi si è visto costretto a ritirare le tre leggi che, tra le altre cose, toglievano ai contadini la garanzia del “prezzo minimo di vendita” dei loro prodotti ai mercati generali.

Le agitazioni sono ricominciate a febbraio di quest’anno. I manifestanti chiedono al nuovo governo la stessa cosa che avevano chiesto al vecchio: mettere per iscritto che il “prezzo minimo di vendita” non sarà mai tolto.

Il dato incrociato interessante è che agli inizi di ottobre in Haryana si vota per il nuovo governo locale, precedentemente guidato da una coalizione capeggiata dal Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito di Modi. E quindi forse non è un caso che in questi giorni la Corte suprema abbia annunciato la formazione di una commissione ad hoc per “incoraggiare una risoluzione amichevole delle questioni sollevate dai contadini”. 

LA PENA DI MORTE NON FUNZIONA CONTRO IL PATRIARCATO

Il 9 agosto nell’ospedale universitario del RG Kar Medical College di Kolkata, nello stato del Bengala occidentale, è stato trovato il cadavere di una tirocinante di 31 anni. L’autopsia ha rivelato che la ragazza, prima di essere uccisa, era stata violentata.

Da quel giorno migliaia di donne sono scese in piazza per protestare contro il patriarcato e chiedere giustizia per l’ennesimo femminicidio, un fenomeno che da anni in India è uscito dalla dimensione emergenziale ed è ormai una piaga sistemica.

Con lo slogan “Reclaim the night” (Riprendiamoci la notte) le proteste si svolgono soprattutto dopo il tramonto, quando la società indiana fortemente patriarcale impone alle donne una specie di coprifuoco non scritto: le ragazze per bene, di notte, se ne devono stare a casa.

Parallelamente ha protestato anche il personale medico e infermieristico, che chiede al governo leggi più dure per punire le aggressioni a chi lavora in ospedale.

La composizione delle proteste è un affare molto delicato in Bengala occidentale. 

Da un lato ci sono le femministe, che se la prendono con le autorità locali – accusate di aver cercato di insabbiare il caso – e con Mamata Banerjee, che guida l’esecutivo locale ininterrottamente dal 2011 e, secondo i suoi oppositori, in tutti questi anni non si è impegnata abbastanza per garantire la sicurezza e la libertà di movimento anche di notte delle donne bengalesi.

Ma le manifestazioni sono state infiltrate anche da simpatizzanti del Bjp, che sembra voglia cogliere l’occasione dei disordini per far cadere il governo locale e andare a elezioni anticipate. Il Bengala occidentale è uno degli stati più popolosi dell’India e manda al parlamento federale ben 42 rappresentanti. Cosa che fa gola al Bjp, che da anni sta cercando di rafforzarsi in bengala per scalzare Mamata Banerjee, una delle oppositrici più ostiche del governo Modi a livello nazionale.

Sotto assedio, Mamata ha cercato di uscirne introducendo nel codice penale dello Stato la pena di morte per chi commette violenze sessuali. Misura che è stata criticata sia in patria sia all’estero e che sicuramente non modificherà di un millimetro la natura fortemente patriarcale della società indiana, da cui derivano a cascata tutte le discriminazioni e i reati commessi contro le donne indiane.

COSA FARE DI SHEIKH HASINA?

L’evento dell’estate, in Asia meridionale, è stato il successo delle proteste popolari contro Sheikh Hasina, l’ex prima ministra del Bangladesh costretta alla fuga dopo aver provato per settimane a reprimere le manifestazioni studentesche nel sangue.

Dallo scorso 6 agosto Hasina è ufficialmente ospite del governo indiano, in una località non meglio specificata ma con ogni probabilità intorno se non proprio a New Delhi. Nei progetti di Hasina il passaggio in India doveva essere una soluzione temporanea. Nonostante i rapporti con il governo di Narendra Modi siano stati ottimi, l’obiettivo dell’ex prima ministra bangladese pare fosse approdare nel Regno Unito, dove parte della sua famiglia allargata risiede da decenni (la nipote è anche una parlamentare del Labour party). Ci sono stati però problemi burocratici, o almeno così dicevano da Londra fino a qualche settimana fa, perciò sembra che Hasina stesse valutando delle mete alternative: Arabia Saudita, Emirati o proprio l’India.

Nel frattempo però in Bangladesh c’è un nuovo governo ad interim, guidato dall’economista e premio nobel per la pace Muhammad Yunus, e la rabbia contro la donna che ha governato col pugno di ferro per quindici anni non è scemata. Anzi: il tribunale bangladese specializzato in crimini di guerra che la stessa Hasina aveva istituito nel 2010 sta preparando la richiesta di estradizione formale della ex prima ministra per riportarla in Bangladesh a rispondere delle accuse di crimini contro l’umanità.

India e Bangladesh hanno un accordo bilaterale che permette l’estradizione di imputati da un Paese all’altro e questo, per New Delhi, potrebbe diventare un problema molto grosso. Le opzioni sono due: o l’India decide di scaricare definitivamente Hasina e di rimpatriarla, ingraziandosi sia questo governo ad interim sia – con ogni probabilità – il prossimo esecutivo che sarà formato quando il Paese tornerà a elezioni, e dove è quasi matematicamente sicuro l’Awami League di Hasina andrà malissimo, oppure si rifiuterà di rispettare gli accordi bilaterali, incrinando ancora di più i rapporti con un vicino che già negli ultimi anni si era progressivamente allontanato dalla sfera di influenza indiana instaurando legami economici molto redditizi con la Cina.

“I VOSTRI OPERAI NON SANNO NEANCHE IMPUGNARE UN MARTELLO”

Quando lo scorso novembre il governo israeliano aveva annunciato la cacciata di tutti i lavoratori palestinesi spina dorsale del settore edile locale – era l’inizio del conflitto che ancora oggi divampa a Gaza – l’India si era subito candidata per rimpiazzare la manovalanza palestinese con migliaia di lavoratori indiani.

All’epoca i sindacati avevano protestato, esprimendo solidarietà alla causa palestinese, ma alla fine l’accordo tra Tel Aviv e New Delhi è andato in porto e diecimila operai indiani provenienti dagli stati di Haryana, Uttar Pradesh e Telangana sono partiti per Israele.

Il processo di selezione degli operai chiamati a lavorare nei cantieri israeliani per oltre duemila euro al mese – stipendio da favola per gli standard indiani – prevedeva delle prove pratiche di montaggio impalcature, saldatura, posa delle piastrelle e intonacatura in centri di impiego istituiti ad hoc.

Le cose però non sono andate come sperato dagli imprenditori edili israeliani.

Nella prima puntata dello speciale dedicato da Indian Express sul caso, una serie di funzionari governativi israeliani riporta dei racconti tragicomici provenienti dai cantieri israeliani, dove i capomastro locali si rifiutano di far lavorare la nuova manovalanza indiana e denunciano dei criteri di selezione quantomeno rivedibili: “Dall’India sono arrivati dei lavoratori indiani molto giovani, molti ventenni che non avevano mai lavorato in un cantiere…lavoravano nei campi o facevano i parrucchieri. Alcuni non sapevano nemmeno tenere in mano un martello”.

I temi nel pezzo sono tanti: dal meccanismo clientelare dei processi di selezione, in cui è probabile che le autorità indiane abbiano infilato tra i lavoratori “esperti” delle persone costrette a pagare per avere una chance di impiego in Israele, fino al problema “reputazionale” dei lavoratori indiani in Israele. Se si sparge la voce, come sta succedendo, che gli operai indiani sono dei buonannulla, quali saranno le ripercussioni per le migliaia e migliaia di operai indiani impiegati non solo in Israele, ma in tutta l’Asia occidentale?

IL RAPPER HANUMANKIND HA FATTO IL BOTTO

Se usate Instagram o TikTok è quasi certo che nelle ultime settimane abbiate sentito la prima strofa di “Big Dawgs” (qui video), il singolo del rapper indiano HanuMankind diventato virale quest’estate.

Rolling Stone India gli ha dedicato la storia di copertina di agosto e racconta la parabola di Sooraj Cherukat, 32 anni, nato e rientrato in Kerala dopo aver studiato in Texas.

HanumanKind canta soprattutto in inglese il che, spiega Rolling Stones India, per anni sembra lo abbia svantaggiato rispetto alla competizione locale. 

In India si fa rap soprattutto nelle lingue locali andando a consolidare il proprio seguito anche tra gli indiani della diaspora – vedi, in particolare, i rapper punjabi.

A luglio però è uscita “Big Dawgs” e la fama di HanumanKind ha superato ogni aspettativa: “La canzone è uscita alla fine del 2024 e dai primi di agosto è diventata la prima canzone in inglese di un artista indiano a raggiungere la prima posizione nella classifica di Spotify India. Nelle settimane successive è salita fino al nono posto della Billboard Global 200 chart e all’ottavo nella US chart, la posizione più alta di sempre di un artista indiano che canta in inglese.»

Consiglio anche questo pezzo collettivo di rapper della scena malayali, cioè provenienti dal Kerala, dove c’è HanumanKind ma ci sono anche MC Couper e Thirumali, che rappano in malayalam e mi fanno pentire di non sapere nemmeno una parola della loro lingua.

A cura di Matteo Miavaldi