La crisi nello stato del Manipur, nell’India nordorientale, e i legami più o meno ufficiali tra Narendra Modi e Gautam Adani, uno dei principali imprenditori indiani degli ultimi anni. Sono i temi che recentemente hanno animato lo scontro parlamentare tra la maggioranza di governo, presieduta da Narendra Modi, e le opposizioni, guidate da Rahul Gandhi dell’Indian National Congress. Ce ne parla Matteo Miavaldi nell’ultima puntata di Elefanti a parte.
Il parlamento federale indiano si riunisce tre volte all’anno. Centinaia di parlamentari provenienti da ogni angolo del Paese si ritrovano a New Delhi per la sessione del budget, la più importante, che si tiene in primavera con lo scopo di fissare gli obiettivi e le strategie economiche dell’India nella legge di bilancio; poi c’è la sessione dei monsoni, in estate, dove si discutono le proposte di legge e si fa un primo punto dell’anno; e infine la sessione invernale, tra novembre e dicembre, in cui vengono messe al voto molte nuove proposte di legge e soprattutto, per l’opposizione, è l’occasione per chiedere chiarimenti pubblici in aula circa l’operato del governo.
Questa ultima puntata di Elefanti a parte del 2024 esce nel pieno della sessione invernale, un ottimo punto di osservazione per misurare l’efficienza e le modalità di amministrazione del potere legislativo nella democrazia più grande del mondo.
Come è capitato quasi sempre negli ultimi dieci anni di destra hindu al governo, le sessioni parlamentari diventano il palcoscenico su cui mettere in scena le differenze inconciliabili tra la maggioranza di governo, presieduta da Narendra Modi, e le opposizioni, guidate da Rahul Gandhi dell’Indian National Congress.
A pochi minuti dall’apertura dei lavori parlamentari, ogni giorno, i due schieramenti iniziano urlarsi contro lanciando accuse di varia gravità costringendo gli speaker della camera (il corrispettivo dei nostri presidenti della camera) a sospendere le sessioni per qualche ora o, nei casi peggiori, dandosi direttamente appuntamento al giorno seguente.
È un contesto in cui si urla molto e si capisce poco, una manifestazione più teatrale che politica che ha l’obiettivo di far risuonare lo sdegno e le polemiche fuori dall’assemblea, tra l’opinione pubblica.
Le opposizioni, in questa sessione, si sono concentrate su due temi cruciali: la crisi nello stato del Manipur, nell’India nordorientale, e i legami più o meno ufficiali tra Narendra Modi e Gautam Adani, uno dei principali imprenditori indiani degli ultimi anni.
LA GUERRA CIVILE SOTTO AL TAPPETO
Nel Manipur ormai da quasi due anni è in corso una guerra civile tra i due principali gruppi etnici dell’area: i meitei, gruppo maggioritario soprattutto di fede hindu residente principalmente nelle zone pianeggianti dello Stato, e i kuki, la minoranza collinare soprattutto di fede cristiana. A settembre avevo accennato alle origini dello scontro e a un bilancio di decine di migliaia di sfollati, 225 morti e una situazione dell’ordine pubblico sfuggita al controllo delle autorità.
Tre mesi dopo è cambiato poco e anzi, le violenze si sono riaccese dopo il ritrovamento di sei cadaveri meitei probabilmente uccisi da milizie kuki.
La risposta del governo centrale, secondo le opposizioni, è stata insufficiente: il Bharatiya Janata Party (Bjp, il partito di destra hindu guidato da Narendra Modi) sostiene la maggioranza di governo locale in Manipur e al di là di generici richiami alla calma e a inviare migliaia di soldati e reparti paramilitari aggiuntivi nello Stato non ha saputo far sentire il proprio peso politico in un territorio considerato tradizionalmente «di confine», lontano dagli occhi e dalle preoccupazioni dell’India continentale.
In tutti questi mesi né Modi né Amit Shah, suo braccio destro e ministro degli interni, hanno trovato il tempo di visitare il Manipur né di intervenire energicamente per cercare di trovare una soluzione politica al conflitto. Per le opposizioni, Modi e Shah se ne stanno tenendo alla larga per evitare l’imbarazzo di una malagestione dovuta anche al fazionalismo di matrice religiosa: sbrogliare la matassa del Manipur significherebbe dover prendere provvedimenti contro alcune milizie meitei di estrazione hindu che durante il conflitto si sono macchiate di crimini gravissimi tra cui esecuzioni sommarie, assalti alle armerie dello Stato, scontri a fuoco con esercito e polizia.
Ma è il secondo motivo di attrito parlamentare quello potenzialmente più esplosivo, ed è l’affaire Adani.
Adani, 62 anni, è un imprenditore originario del Gujarat (come Modi) che in parallelo alla parabola ascendente di Modi nella politica indiana ha registrato una crescita del gruppo che presiede, e che prende il suo nome, sbalorditiva. Il gruppo Adani è attivo in svariati settori, soprattutto nell’estrazione mineraria, nella logistica portuale e nella produzione energetica, e da quando Modi governa l’India si è aggiudicato numerosi appalti pubblici a cui si aggiungono molti progetti internazionali.
L’accusa che da anni le opposizioni muovono al governo Modi è quella di star favorendo illegalmente il gruppo Adani sia dentro sia fuori i confini indiani, come raccontato in questa inchiesta molto ben documentata pubblicata qualche mese fa su Scroll.in.
Oltre ai legami sospetti tra Modi e Adani, il gruppo Adani negli ultimi anni è finito al centro di scandali di portata internazionale, a partire dalla denuncia del gruppo di short-selling Hinderburg che nel gennaio del 2023 aveva accusato Adani e la sua famiglia di aver sistematicamente gonfiato i bilanci delle loro sussidiarie per ingannare gli investitori globali, e nell’agosto del 2024 aveva rincarato la dose tirando in ballo l’organo di garanzia della borsa indiana (la Sebi) per aver sostanzialmente chiuso un occhio di fronte alle irregolarità di Adani e dei legami tra Adani e i vertici della stessa Sebi. La storia è molto interessante e molto complessa, vi rimando quindi a questo mini explainer di Reuters.
A fine novembre 2024 il gruppo Adani è stato ufficialmente accusato da un tribunale di New York di aver distribuito centinaia di milioni di mazzette a funzionari locali indiani per accaparrarsi contratti plurimilionari di progetti di energia solare nel Paese. Progetti che poi il gruppo avrebbe promosso negli Stati Uniti per raccogliere investitori.
Adani ha ufficialmente rimandato le accuse al mittente descrivendole come “infondate”, ma l’apertura di un fascicolo negli Stati Uniti rappresenta un danno reputazionale enorme non solo per il gruppo Adani, ma per tutta l’India, a partire dai presunti rapporti stretti tra Adani e il governo Modi.
Per questo le opposizioni hanno intensificato le proteste dentro e fuori il parlamento, organizzando addirittura una scenetta con due persone mascherate da Adani e Modi che si stringono la mano a favore di telecamera.
Stretta a tenaglia, la maggioranza di governo sta cercando di rilanciare muovendo accuse pesantissime alle opposizioni e alla stampa internazionale.
Il Bjp ha usato alcuni stralci di un rapporto stilato da Mediapart per descrivere un complotto internazionale per screditare l’India ordito da Rahul Gandhi e dall’organizzazione di giornalismo investigativo internazionale Organised Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) con l’aiuto – e i soldi – del Dipartimento di stato statunitense e di George Soros, il miliardario filantropo di origini ungheresi spesso al centro dei deliri complottistici delle destre transnazionali.
Nel caso indiano, secondo il Bjp, i numerosi articoli di inchiesta pubblicati da Occrp dedicati al gruppo Adani (sul portale di Occrp esiste addirittura una sezione dedicata al tema) oltre a muovere accuse completamente inventate sarebbero stati concordati con Rahul Gandhi in persona e finanziati dagli Stati Uniti e da Soros con l’obiettivo di “screditare l’India”.
Come si legge all’inizio di un thread pubblicato sul profilo X del Bjp l’India, secondo il partito di Modi, sarebbe vittima di un attacco concertato da parte del “deep state” statunitense.
È una teoria che fa acqua da tutte le parti ed è già stata smentita ufficialmente anche da Mediapart, indicata dal Bjp come la fonte grazie alla quale l’intrigo internazionale è stato smascherato, ma che affidando le proprie dichiarazioni al portale indiano The Wire non solo accusa il governo indiano di aver “strumentalizzato” il loro lavoro di ricerca per diffondere “fake news”, ma rincara la dose manifestando sostegno ai “coraggiosi giornalisti che in India e all’estero che lavorano e indagano sull’India”.
Forti di questo presunto scandalo, i parlamentari del Bjp hanno sia paralizzato i lavori del parlamento, sia rafforzato in una parte dell’opinione pubblica indiana la convinzione dell’esistenza di forze oscure, “deep state” e macchinazioni internazionali che minacciano la reputazione dell’India proprio ora che il Paese è lanciato verso un futuro di prosperità e si candida a diventare la prossima superpotenza asiatica.
È una strategia che, in India e non solo, consolida l’elettorato più complottista e aiuta a mettere al riparo gli esecutivi dalle critiche. Ed è una strategia che, con la prossima presidenza Trump alle porte, è probabile vedremo sempre più spesso utilizzata dal governo indiano per screditare chi critica l’operato di Modi sia da dentro l’India, sia da fuori.
LA CARNATIC FUSION DEI LAKKSHYA
Il 22 novembre il quartetto di musica classica carnatic Lakkshya ha pubblicato l’album d’esordio Ecstasy.
Sei tracce che comprendono alcune collaborazioni di lusso – come quella della bassista indiana Mohini Dey nella prima canzone dell’album, The Way Home, e in Bhavani – e ricordano le sperimentazioni della fusion della Mahavishnu Orchestra e soprattutto del progetto Shakti, con John McLoughlin alla chitarra, L. Shankar al violino e Zakir Hussain alle tabla.
Si tratta di una riattualizzazione della tradizione carnatic, branca della musica classica indiana tipica dell’India meridionale caratterizzata da evoluzioni melodiche in cui violino e voce regnano incontrastati.
In Ecstasy i Lakkshya hanno i piedi ben saldi nelle proprie origini classiche ma flirtano, senza esagerare, con il jazz occidentale e con i ritmi latini.
Di Matteo Miavaldi