L’utopia cinese degli illuministi, il culto esotico dei romantici, la sinofobia d’epoca coloniale, le mitologie maoiste… La Cina è rimasta sempre lontana, meta raggiunta più dalla letteratura che dagli uomini in carne e ossa. China Files vi regala l’introduzione di In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (per gentile concessione dell’autore).
C’è stato un tempo in cui la Cina non esisteva. Non esistevano i nomi delle sue città, delle sue regioni, non esisteva la lingua e la scrittura che gli abitanti di quella terra remota usano ancora oggi nelle loro comunicazioni. Non esistevano i palazzi, i templi, addirittura le case e prima di essi non esistevano gli stili architettonici che di epoca in epoca li hanno definiti. Non esisteva la letteratura di quel popolo né la musica. Infine non esisteva la sua storia, uomini e donne immersi in un eterno presente senza memoria.
La Cina non esisteva, nella misura in cui esisteva solo nello spazio delle utopie che si sono rincorse in secoli di viaggi ed esplorazioni. Un’esistenza limitata allo spazio del discorso, a quel livello sospeso tra la realtà e l’ordine delle parole. Ecco, se la Cina è mai stata un’entità oggettiva, reale, lo è stata come discorso sulla Cina. In Occidente, per almeno due millenni quella regione del mondo è coincisa con ciò che di essa hanno scritto mercanti, militari, missionari, esploratori, poi, in ultimo i viaggiatori di professione.
Dire Cina significava evocare, quasi per una sorta di riflesso condizionato, una fitta tessitura di oggetti, immagini, personaggi immutabili nella loro insistenza epocale, nel loro essere cinesi, stereotipi tramandati di secolo in secolo, modelli al quale ridurre la propria esperienza diretta, oppure il racconto degli altri. La letteratura precede sovente i viaggi? Nel caso della Cina quasi sempre. Aveva forse ragione Sergio Solmi, quando spiegava che per secoli la più vera immagine dell’Oriente, al di là delle fantasie convenzionali dei poeti e dei novellatori, è rimasta, nella concezione degli europei, essenzialmente legata al Milione.
Non a caso il libro di Marco Polo, così come aveva già guidato la fantasia di Colombo nel tentare la via occidentale alle Indie, è stato modello e precedente di numerosi viaggi in Cina nel corso del Novecento. Terra di mirabilia, spazio sconfinato fuori dal tempo: la Cina non poteva esistere perché la sua diversità plurale era schiacciata dentro i canoni del noto, come da una forza centripeta. «Per il nostro sistema immaginario la cultura cinese è la più meticolosa, la più gerarchizzata, la più sorda agli eventi del tempo, la più legata al puro svolgersi dell’estensione», scriveva Michel Foucault ne Le parole e le cose. Ecco la Cina, «un grande serbatoio di utopie».
Per secoli ignaro della storia di quel continente, il lettore occidentale che abbia attraversato le pagine dedicate ai viaggi in Cina fino a qualche decennio fa, potrebbe essere assimilato al Confucio protagonista di uno degli aneddoti che costituiscono il Liezi, caposaldo della letteratura taoista meglio conosciuto in Occidente come Trattato del Vuoto Perfetto.
Vi si narra di Confucio chiamato a sedare una contesa tra due giovani, durante una delle sue peregrinazioni. I due si interrogano sulla mutevole grandezza del sole durante la giornata. Uno afferma che il sole è più vicino all’alba e più lontano a mezzogiorno, mentre l’altro sostiene l’esatto contrario. Entrambi conducono nella discussione elementi che comprovano l’una e l’altra tesi. Il sole al mattino appare più grande che a mezzogiorno proprio perché più vicino alla terra, afferma l’uno; il sole è più freddo all’alba e più caldo nel corso della giornata: è risaputo che le cose sono più o meno calde a seconda della loro vicinanza o lontananza, sostiene l’altro. Chi ha ragione? Lo chiedono a Confucio. Ma quando il Maestro dirà di non saper stabilire chi ha torto e chi ragione, i due domanderanno all’unisono: «Perché dicono che siete tanto sapiente?»
Per secoli al lettore occidentale è stata proposta una visione sostanzialmente unitaria della cultura cinese, fondata su proposizioni indiscutibili, sclerotizzate nel tempo e difficilmente controvertibili spesso per mancanza di dati di prima mano. Come forse avrebbe insegnato il Leizi, la verità sta in quel vuoto assoluto che esiste tra una proposizione e l’altra, tra una dimostrazione e l’altra. La verità è appunto nell’assenza di una verità. Le dimostrazioni condotte dai due contendenti sono entrambe reali: in apparenza le loro dimostrazioni si fondano su un dato pratico, di esperienza. Sono reali, ma non vere. Si basano su una consuetudine, ma non sono frutto di un’indagine che proceda oltre le apparenze.
Può un’identità altra essere spiegata fino in fondo? Probabilmente no. E nel tentativo di spiegare (in modo più o meno erudito, più o meno consapevole), quanto conta la prospettiva dalla quale si origina il proprio vissuto, la propria conoscenza, e dunque la propria lettura? Non è un caso che la Cina è forse l’unica realtà al mondo la cui immagine non è stata ancora del tutto aggiornata, essendo in gran parte, ancora oggi, cristallizzata in un passato dai contorni sfocati, nel quale le epoche si confondono, così come si confondono le dinastie con i loro nomi assonanti, e i nomi delle città sempre diversi, quasi si moltiplicassero nel vuoto della loro non – esistenza.
Millenni di chiusura, di ricercata distanza dal resto del mondo non hanno certo facilitato le cose: la Cina è un gigantesco satellite che ruota placido e indisturbato intorno al suo asse, capsula autosufficiente che non ha bisogno di approvvigionarsi altrove, di esplorare a sua volta il mondo tanto è grande.
Qualsiasi studio si avvicini a quell’universo, anche per via indiretta come il presente, deve fare i conti con la particolarità della storia cinese, irriducibile alle costanti che hanno segnato quella dell’Europa e del mondo occidentale in genere. La stessa parabola maoista, che pure ha goduto in Occidente di una sovraesposizione – e per questa ragione è stata a torto intesa come l’espressione suprema della cultura politica cinese contemporanea – se rapportata alla millenaria storia imperiale che l’ha preceduta, rappresenta con il suo mezzo secolo d’esistenza una breve appendice che certo non può spiegare né connotare la sostanza di una cultura.
Dai primi albori dell’età classica fino alla fine del Ventesimo secolo si sono probabilmente manifestati gli ultimi, significativi segni di un rapporto univoco marcati dall’ombra della modernità. L’utopia cinese degli Illuministi, il culto esotico dei Romantici, la sinofobia d’epoca coloniale, le mitologie maoiste prima e dopo la morte del Grande Timoniere, possono essere considerate quali sintomi di uno scambio culturale mutilo.
La Cina è rimasta sempre lontana, meta raggiunta più dalla letteratura che dagli uomini in carne e ossa. Terra dal volto mai svelato, se non nelle forzate illusioni dei viaggiatori che ne hanno scorso gli orizzonti. Una semplice legge non scritta ha gravato sui discorsi di secoli: più chiare sono state le formule dei resoconti di viaggio, più lontana è risultata, alla fine, la Cina.
Oggi che il velo è stato strappato, e la Terra del Centro non è più un’utopia praticabile, tutto è ancora più complesso. La Cina ha riempito di sé il mondo. Il profilo sempiterno di Mao Zedong si fonde con gli esiti funambolici dell’arte contemporanea cinese, i guerrieri in terracotta di Xi’an peregrinano nei musei di mezzo mondo in una sorta di surreale diaspora delle statue. Dopo millenni, in Occidente siamo diventati spettatori della funambolica parabola della Cina contemporanea, scoprendo la nostra conoscenza di essa profondamente inattuale.
D’altro canto, affrontando da vicino il caso italiano, è un dato che siano stati molto numerosi i reportage, i resoconti, le memorie di viaggi in Cina editi in Italia nel corso del Novecento. Un corpus vasto e articolato che dimostra come quella nazione sia stata oggetto costante delle attenzioni dell’industria letteraria nazionale. Si diceva verso la fine degli anni Cinquanta che la Cina era vicina. Uno slogan di straordinaria presa che riuscì a materializzare l’inedita vicinanza, per l’appunto, di una realtà che si era mostrata fino ad allora nello spazio aureo dell’utopia o in quello tenebroso e sinistro della distopia.
In realtà la Cina è rimasta a lungo distante, irraggiungibile, oggetto delle letture più disparate ma tutte, in una misura variabile, debitrici di un vizio epistemologico che è stato la vera costante di un secolo di viaggi. L’altro, e nel caso specifico di questo lavoro l’altro cinese, è stato l’alibi per proiettare sul mondo la propria pulsione utopica. Discorso razzista e visione idealizzante fondano i testi antologizzati in questa sede, avvicendandosi secondo moduli epocali.
E così le scelte retoriche (da quelle che riguardano il piano dell’espressione fino a quelle che definiscono più da vicino il contenuto del discorso) i personaggi selezionati nell’orizzonte dell’ignoto, i volti, le parole, le storie raccontate e quelle fatte raccontare da altri, le reticenze, le approssimazioni più o meno colpevoli, puntano tutte a un nodo di senso che, con il trascorrere e il sommarsi delle pagine, sembrerebbe farsi inequivocabile: la necessità di ridurre al noto l’alterità culturale cinese, di forzarne il significato riconducendolo nello spazio angusto del familiare.
Di volta in volta, l’universo cinese corrisponderà – con alcune significative eccezioni – alla formula che il viaggiatore ha elaborato prima ancora di partire. Certo, le finalità sono mutate nel corso di un secolo. Non si può, e non si deve, infatti, parlare di una tradizione immobile, né di un limite "storico" che peserebbe sull’esperienza dei singoli viaggiatori, e la diversità dei testi proposti dovrebbe ampiamente dimostrarlo.
Non si avrà qui la presunzione, né potrebbe essere altrimenti, di indagare le eventuali insufficienze del linguaggio, o di evidenziare un mancato processo di evoluzione delle istanze del pensiero che si attivano a contatto con un’alterità culturale. D’altra parte, si vorrebbe fornire il lettore di un potenziale strumento per approfondire i termini di un problema che si presenta ormai come decisivo. Se negli anni Cinquanta la Cina era vicina, oggi, nel secondo decennio del Ventunesimo secolo, essa è una galassia incombente sulle nostre vite che chiede a grandissima voce di essere accolta e compresa.
La completezza non è certo la caratteristica dominante del presente volume, impostata al contrario – perseguendo tra l’altro un criterio di sintesi che riguarda la stessa dimensione genetica del genere antologico – in modo tale da rappresentare una documentazione di base, evidente e diretta, sui testi ritenuti più rappresentativi. L’auspicio è che il viaggio dei contemporanei verso la Cina, non sia più soltanto un viaggio di solo ritorno.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.