Pechino ha lanciato la sua criptovaluta nel 2019 e ne sta sperimentando l’uso in alcune città-pilota. Quali sono le conseguenze di questo cambio di paradigma e perché potrebbe uscire dai confini cinesi
Pagamenti a portata di smartphone: chi ha utilizzato WeChat Wallet o Alipay sa bene quanto sia facile e veloce comprare un biglietto della metropolitana, pagare una cena o restituire dei soldi a un amico con un semplice tocco allo schermo dello smartphone. A una prima occhiata, lo e-yuan – la criptovaluta nazionale, non si discosta molto da quel sistema di transazioni a cui i cittadini cinesi sono già abituati. Anzi, presenta ulteriori vantaggi: “È molto comodo, dato che si può usare anche senza una connessione internet“, ha detto Lily Zhang, residente a Pechino, al South china morning post. “Ho il 50% di sconto quando uso lo yuan digitale per prendere la metropolitana”, ha commentato invece Robin Deng da Chengdu, una delle città-pilota del progetto.
Come accade spesso per gli esperimenti economici di grande importanza, nel 2019 l’utilizzo della criptovaluta di Stato è stato lanciato in via sperimentale solo in dodici aree del paese, tra provincie e città metropolitane (tra cui Shenzhen, Suzhou e Shanghai). Oltre a introdurre sconti su alcuni beni e servizi, per incentivare i cittadini a utilizzare il nuovo servizio alcune municipalità hanno iniziato a regalare agli utenti piccole somme in valuta digitale. È il caso degli hongbao digitali emessi durante il Capodanno lunare del 2020 e del 2021, una mossa destinata anche a trattenere i lavoratori migranti in città per prevenire la diffusione del Covid19.
Perché una criptovaluta nazionale?
La Cina ha reso illegali le criptovalute nel 2021, dopo che il paese era diventato un paradiso per i cosidetti “miners”, attività che investono nella “produzione” (detta mining) delle criptovalute tramite l’uso di potenti server: l’elettricità aveva dei costi convenienti e nelle regioni più remote c’era ampio spazio per installare le apparecchiature necessarie. E sembrava che Pechino, in un primo momento, intendesse lasciar correre. Ma le valute digitali come Bitcoin, Etherum e altre rappresentano un’alternativa – talvolta una scappatoia – al sistema finanziario così come lo conosciamo oggi e, in quanto tali, diventano automaticamente un problema di sicurezza nazionale, un sistema su cui il paese non può legittimare la propria sovranità.
Una valuta digitale di Stato, al contrario, permette di tracciare i pagamenti in tempo reale. In un’economia che sta cercando di stabilizzarsi dopo quarant’anni di crescita sregolata, lo e-yuan rappresenta il tentativo di ridurre le frodi e le insolvenze di aziende e cittadini. La disponibilità immediata di moneta digitale permetterebbe, inoltre, di inviare con rapidità aiuti economici in situazioni d’emergenza. Infine, lo yuan digitale subisce il diretto controllo della Banca centrale cinese (Pboc) e non delle big tech: una ulteriore garanzia di stabilità e sicurezza agli occhi di Pechino.
Verso l’utilizzo nazionale e oltre
Lo e-yuan è anche uno strumento che il governo cinese spera di poter utilizzare per le transazioni internazionali. Ciò permetterebbe ai regolatori di monitorare eventuali illeciti anche fuori dai confini cinesi: si pensi, per esempio, alla corsa agli investimenti all’estero accelerata dalla Belt and road inititative. Un esercizio utile è stato l’utilizzo dello e-yuan all’interno della bolla olimpica, anche se sono stati pochi i cittadini stranieri ad aver fatto uso della app dedicata.
Questo tentativo di internazionalizzazione aiuterebbe la Repubblica popolare a rendersi autonoma dal dollaro sui mercati internazionali. È quanto sta avvenendo a margine degli accordi sugli scambi commerciali stipulati con i partner del Sudest asiatico e del Medio oriente, come nel caso della Thailandia e degli Emirati arabi uniti. Ciononostante, gli esperti rimangono cauti sull’utilizzo dello e-yuan come valuta internazionale nel breve-medio termine: “Non sarà un punto di svolta che eleva il ruolo del Renminbi nella finanza internazionale. Il governo cinese limita ancora gli afflussi e le uscite di capitali e la Banca popolare cinese gestisce ancora il tasso di cambio del renminbi. Nessuna delle due politiche è destinata a cambiare in modo significativo in tempi brevi”, ha affermato a Project Syndicate Eswar Prasad, professore di politica commerciale della Cornell University.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.