Il 10 marzo scorso, a Pechino, Iran e Arabia Saudita raggiunto un accordo per impegnarsi a ristabilire le relazioni bilaterali, interrotte nel 2016. Per la prima volta la Cina ha fatto da mediatore attivo tra due dei più importanti attori del Medio Oriente, senza gli Stati Uniti. Ne abbiamo parlato in un articolo uscito nel nostro ultimo e-book con Jacopo Scita, Policy Fellow del think tank Bourse & Bazaar Foundation. Qui l’intervista integrale
I suoi protagonisti lo chiamano “Beijing agreement”, l’accordo di Pechino. È quello che la Cina ha mediato tra Iran e Arabia Saudita nella sua capitale, dal 6 al 10 marzo scorsi. Pochi giorni per risolvere un silenzio diplomatico durato sette anni. A Pechino, Teheran e Riyadh si sono impegnate a ristabilire le relazioni bilaterali interrotte nel 2016. Sette anni di tensioni che hanno raggiunto il picco nel 2019, con l’attacco tramite droni (mai rivendicato dall’Iran) agli impianti petroliferi di Saudi Aramco, compagnia di proprietà del regno saudita.
Per vari analisti, la mancata reazione americana all’attacco avrebbe spinto l’Arabia Saudita – storica alleata di Washington – a diversificare i propri partner, guardando a oriente, e prima di tutto a cercare un riavvicinamento con Teheran. Le trattative per la ripresa dei rapporti ufficiali tra Iran e Arabia Saudita sono iniziate nel 2021 in Iraq e proseguite successivamente in Oman, dove le parti non sono riuscite a superare la fase di stallo. Poi è arrivata la Cina.
Per la prima volta la Repubblica popolare ha svolto il ruolo di mediatore attivo tra due dei più importanti attori del Medio Oriente, senza gli Stati Uniti (che comunque hanno contribuito alle trattative nei due anni precedenti) e senza usare l’inglese. Nel corso delle riunioni di Pechino si è parlato solo in farsi, arabo e mandarino. E anche se i sauditi hanno costantemente aggiornato Washington durante i negoziati, a dirigere i colloqui c’era il il direttore della Commissione affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese, Wang Yi, che a cose fatte ha parlato di “vittoria per la pace”. L’ex ministro degli Esteri non ha fatto a meno anche di evidenziare il “ruolo costruttivo della Cina nella gestione dei problemi del mondo” e di responsabilità “da grande nazione”.
Abbiamo parlato dell’accordo e di cosa rappresenta per il futuro della Cina in Medio Oriente con Jacopo Scita, Policy Fellow del think tank Bourse & Bazaar Foundation. Di seguito l’intervista integrale (il resto dell’articolo continua invece sull’e-book).
Quanto è stato importante il ruolo della Cina per la chiusura dell’accordo?
Intanto bisogna dire che la dimensione di questo accordo tra Iran e Arabia Saudita è prettamente regionale, su questo non ci sono dubbi. Tutto nasce in primis dall’interesse di Riyadh nel cercare di coinvolgere Teheran in un dialogo con l’obiettivo di de-escalation. Da lì la cosa è andata avanti coinvolgendo alcuni mediatori regionali, fino ad arrivare però a uno stallo. La cosa interessante è che poi sia stata l’Arabia Saudita a chiedere alla Cina di farsi di carico di una mediazione, ed è opinione diffusa che a quel punto Pechino abbia colto un’occasione. Penso che la Cina abbia accettato questo ruolo, e la dimensione pubblica che ne è uscita, perché c’erano buone possibilità che l’accordo andasse in porto, molto semplicemente perché sia Iran che Arabia Saudita volevano raggiungerlo. Pechino ha fatto da facilitatore, ma dire questo non sminuisce il ruolo cinese, visto che la Repubblica popolare è l’unico attore internazionale che ha lo stesso grado di influenza sia sull’Iran che sull’Arabia Saudita.
Una grande vittoria diplomatica?
Si può dire tutto quello che si vuole, ma è una vittoria diplomatica importante. La Cina oggi può dire al mondo di essere stata quella che ha aiutato a fare la pace tra due attori che sono al centro di un confronto che va avanti da decine di anni, e l’accordo per ora regge. Poi si potrebbe parlare delle sue implicazioni, o del fatto che non bisogna pensare che abbia risolto tutte le controversie tra Iran e Arabia Saudita, ma resta un accordo cercato da entrambe le parti con negoziazioni dirette da almeno due anni, ed è quindi una vittoria diplomatica per la Cina.
Finora, nei propri rapporti con il Medio Oriente la Cina si era sempre concentrata solo sugli aspetti economici. La mediazione di questo accordo dimostra che Pechino vuole aumentare la propria influenza politica nella regione?
Non ci leggo un particolare volere cinese in questo senso. Non vedo la Cina passare dal fare diplomazia tramite le relazioni economiche al diventare un attore protagonista dal punto di vista politico e diplomatico, nel senso tradizionale del termine. Sarebbe sbagliato leggere questo accordo come punto di inizio di una nuova fase, soprattutto nel contesto del Medio Oriente. Piuttosto, come è successo in questo caso, potremmo vedere una Repubblica popolare più disposta intestarsi alcuni processi regionali già indirizzati verso una soluzione positiva. Per esempio, non immagino la Cina farsi carico di risolvere il conflitto israelo-palestinese, perché è un contesto dove la prospettiva di un accordo è distante, se non impossibile. Pechino, come ha sempre fatto, continuerà a stilare tutti questi piani a punti per la soluzione dei conflitti, ma dal punto di vista concreto non credo farà molto.
Penso invece che sia più utile guardare al contesto globale in cui si inserisce l’accordo tra Iran e Arabia Saudita. La Cina in Medio Oriente mette ancora le relazioni economiche prima di tutto, il che comporta un’esposizione diplomatica di basso livello e zero impegno per quanto riguarda la gestione della sicurezza nella regione. A livello globale, invece, la Repubblica Popolare sta spingendo molto sull’idea di farsi rappresentante indiretto di tutto questo gruppo di paesi che non accetta la divisione in buoni e cattivi, anche per quanto riguarda la guerra in Ucraina. Ciò si è notato nel tentativo di definire la GSI [Global Security Initiative], cioè di mettere nero su bianco un indirizzo diplomatico regionale che guardasse molto a questi paesi “non allineati”, il cosiddetto Global South. Wang Yi ha messo il ruolo cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita in questo contesto, come si vede leggendo le sue dichiarazioni post accordo.
La GSI, così come la Global Development Initiative (GDI) o la Global Civilization Initiative (GCI), fa parte di quei programmi cinesi ad alto contenuto retorico che fanno presa, ma che poi nel concreto portano poco. Soprattutto sul piano della sicurezza.
Questo accordo è in un certo senso “capitato bene” alla Cina , perché gli permette di dire che si preoccupa dei problemi e dei conflitti al di fuori della guerra in Ucraina, e che è disposta ad agire come mediatrice per la pace. Soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente, però, Pechino continua a ribadire che sono i paesi della regione a essere responsabili del proprio destino e che non hanno bisogno di patriarchi esterni. È una narrazione che in Medio Oriente ha appeal, perché significa che la Repubblica popolare non vuole intromettersi negli affari interni degli Stati dell’area. Dall’altro lato è però uno scarico di responsabilità. Vale anche per l’accordo Iran e Arabia Saudita, per dire che se le cose vanno male non è responsabilità della Cina. Per questo sono scettico che Pechino farà da garante dell’accordo.
Ma la Cina non si occupa della sicurezza nella regione perché non vuole o perché non può farlo? Se e quando avrà i mezzi tecnici e militari per permetterselo, forse le cose potrebbero cambiare.
La domanda è da girare: secondo me oggi non vuole e non può. Nel medio periodo continuerà a essere così. La Cina non è in grado di trasformare tutta l’architettura di sicurezza che c’è in Medio Oriente, o di sostituire gli Stati Uniti. Il fatto è che, da un lato, ci sarà una richiesta sempre più forte degli stessi paesi del Medio Oriente affinché Pechino si prenda delle responsabilità in più. Dall’altro, più uno Stato costruisce relazioni e legami economico-finanziari con una regione, più iniziano a sorgere delle
necessità pratiche di garantire un livello di sicurezza ai tuoi asset. Per esempio, gli ultimi dati parlano di 6000 business cinesi e di circa 300 mila espatriati cinesi negli Emirati arabi uniti. Pensando anche solo a un conflitto nella regione, espatriare nell’immediato tutti i tuoi cittadini, difendere i tuoi business e così via, fa sì che non puoi lasciare che siano solo gli Stati Uniti a farsi carico dalla tua sicurezza. È un po’ una trappola: nel medio-lungo periodo questo approccio non è sostenibile.
Sui rapporti Cina-Iran. La Repubblica popolare ha promesso tanti investimenti nel paese, ma a conti fatti non ha mantenuto quanto si era impegnata a fare. Quali sono le prospettive future?
In tanti mi hanno chiesto se il fatto che la Cina abbia fatto da mediatrice in questo accordo cambierà qualcosa, se ci sarà questo salto di qualità nei rapporti Cina-Iran soprattutto sugli investimenti, che è il punto cruciale. La mia risposta è no. Perché l’impedimento principale che rende questa eventualità poco probabile sono le sanzioni all’Iran. Le sanzioni secondarie [legate al programma nucleare di Teheran] fanno dire a Pechino che non ne vale la pena. Forse c’è stata una piccola finestra per rafforzare i rapporti economici tra il 2016 e il 2018 col JCPoA [l’accordo sul nucleare iraniano], ma l’impressione è che alla fine si rimarrà in questa sorta di “stato di emergenza” in cui Iran e Cina si raccontano solamente di essere partner importanti. Pechino resta il partner economico principale di Teheran, continua a comprare petrolio facendo da salvagente all’economia iraniana, ma è una relazione imparagonabile rispetto alle potenzialità che potrebbe avere. Nel 2022 Repubblica popolare e Iran hanno avuto uno scambio complessivo di 16 miliardi: un valore minimo, pensando che quello tra Cina e Arabia Saudita è stato di 90 miliardi.
L’Iran avrebbe un potenziale enorme di attrarre gli investimenti cinesi. È un paese molto grande, con una popolazione giovane, con estremo bisogno di sviluppo infrastrutturale e con un mercato interno molto dinamico. Ma il limite non è politico, è che oggi l’Iran non è buon investimento per la Cina e secondo me sarà difficile immaginare un salto di qualità nel breve periodo. Ovviamente questo può cambiare, come si è visto nel 2016 con il JCPoA, ma serve un’intesa tra Teheran e Washington.
Una Cina in prima fila come mediatrice di un accordo nucleare è impossibile?
Molto difficile. Anche durante le negoziazioni per il JCPoA la Cina era un attore secondario, quasi “disinteressato”. È passata a un ruolo di primo piano solo quando era diventato abbastanza chiaro che il trattato si sarebbe chiuso. Servivano ancora lunghe negoziazioni ma, come per l’accordo tra Iran e Arabia Saudita, era un processo che sembrava andare nella direzione di risolversi positivamente. In più era il 2013 e c’era anche questo nuovo impulso di Xi Jinping che voleva rilanciare la Cina sul piano globale. C’era quindi sia la possibilità di intestarsi un accordo che andava concludendosi, sia la volontà di emergere a livello internazionale. Oggi, dove le possibilità di un accordo sono molto poche, non vedo la Cina spendere capitale diplomatico per risolvere la situazione. Anche perché io penso che la Cina, pur non avendo alcun interesse a vedere l’Iran diventare uno stato nucleare, sia soddisfatta di come stanno andando le cose, non ci sta perdendo. Ci perderebbe solo in caso di un’escalation e di una guerra, ma l’Iran ha appena firmato l’accordo con l’Arabia Saudita e la minaccia di un potenziale attacco israeliano rimane remota.
Poi l’accordo tra Teheran e Riyadh ha già prodotto una serie di conseguenze positive, dai colloqui per cessare la guerra in Yemen al reintegro della Siria nella Lega Araba. Anche qui la Cina quanto conta?
Va tutto contestualizzato nella spinta positiva di questo dialogo, ma rimane una dimensione regionale e comunque precaria. L’accordo non ha risolto i problemi del Medio Oriente e neanche completamente quelli tra Iran e Arabia Saudita. La Cina in ogni caso è contenta. A un mese dalla loro mediazione di successo i cinesi sono stati molto felici di ospitare i ministri degli Esteri iraniano e saudita a Pechino per far vedere che ci sono ancora. Poi nei giorni successivi all’accordo, nella prima metà di marzo, il rappresentante delle Nazioni Unite per lo Yemen era in Iran e ha incontrato per la prima volta l’ambasciatore cinese a Teheran. Non significa che la Cina abbia risolto la situazione in Yemen, però è chiaro che se le cose funzionano la Repubblica popolare ha interesse a mostrarsi. La sensazione è che la Cina continuerà a capitalizzare finché le cose andranno bene: solo quando si complicheranno vedremo se la Repubblica popolare sarà diventata davvero il “paciere del Medio oriente”, intenzionata a fare da garante, spingere i paesi della regione a tenere buone relazioni e così via. Per adesso che il gioco è facile non vuole esserne esclusa, sarebbe stupido.
A cura di Francesco Mattogno