Hanno avuto e hanno tutte le nostre malattie, come noi le loro. Ce le siamo scambiate, le abbiamo trasformate, a volte vinte, a volte invece hanno trionfato, noi come loro, i cinesi, sempre ammalati perché la malattia è natura, uno stato comune a loro e a noi. La cura invece è cultura. Così noi e loro, i cinesi, abbiamo tentato di curare i nostri mali a seconda dei nostri modi diversi di concepire la natura che è sì la stessa, ma è stata diversamente interpretata a seconda di concezioni filosofiche umane divergenti. Spesso abbiamo coltivato l’erba della buonafede, spesso invece abbiamo seminato la zizzania dei ciarlatani, sin dall’alba della storia. La cura infatti, essendo cultura, si è sempre trovata a giocare in ambiti che non dovrebbero esserle propri, in quello politico, in quello del potere, in quello del prestigio e del guadagno materiale.
A un Ippocrate si contrappone un Hua Tuo ma nessun medico cinese ha mai giurato in suo nome, perché venne giustiziato con l’infame accusa di aver cercato di capire cosa ci fosse realmente dentro il corpo dell’uomo, il che era contrario ai principi confuciani. Fu un’esecuzione politica, di potere, che si tentò di contrabbandare come culturale, tale e quale tante altre che in Europa vennero commesse in nome della cultura, una cultura diversa, non confuciana, ma pur sempre cannibale.
Hua Tuo fu decapitato nel secondo secolo dell’era volgare. Nel 1958 Mao Zedong lo ricorda in una delle sue ormai dimenticate poesie “Addio al genio delle calamità” scritta in occasione della notizia che la schistosomiasi, una malattia endemica che da secoli affliggeva vaste zone del sud paludoso, era stata sconfitta:
Per chi mai erano verdi fiumi e monti
Se minuscoli germi sconfiggevano Hua Tuo?
E l’erba mala soffocava mille villaggi, gli uomini perivano
E i demoni cantavano nelle case deserte…
In tutti quei secoli, niente aveva drasticamente modificato il sapere medico delle origini, i metodi di cura che si dicevano più antichi dello stesso Confucio: l’agopuntura, la moxibustione, la palpazione del polso, le ricette di erboristeria. Gli antichi testi non erano mai stati contestati, al massimo ampliati con l’aggiunta di nuovi casi, nuove questioni, seguendo lo schema del Nei Jing, il canone della medicina, antico, si dice, più di tremilacinquecento anni e che si basa sul concetto di Qi, soffio o energia, che permea tutto l’universo ed è la radice della vita e di tutti i mutamenti.
Non intendo addentrarmi sulle concezioni della medicina tradizionale cinese, tanto meno affrontare la polemica sui suoi meriti ma il fatto è che nonostante le diverse concezioni delle nostre culture, ci siamo curati pressappoco nello stesso modo in Cina e da noi, più che altro con le erbe, con organi di animali, con credenze magico-religiose, fino a quando in Europa successe un fatto nuovo che ancora non si spiega, almeno stando a Jospeh Needham, il grande studioso del Novecento autore del monumentale studio “Scienza e civiltà in Cina”.
Come mai, si chiede Needham, in Cina che fino al XVI secolo era più avanzata dell’Europa sotto mille aspetti, non si verificò quel bizzarro evento che va sotto il nome di rivoluzione scientifica? La questione è nota come “il problema di Needham” e tante risposte sono state avanzate, nessuna del tutto soddisfacente. Oggi alla luce dei fatti e dello sviluppo esponenziale della scienza cinese in tutti i campi, il problema non dovrebbe neanche più porsi, perché è come domandarsi chi può vantare la scoperta del fuoco. Essere stati i primi non ha nessun valore e nessun senso, in questo come in tutti i campi. Gli umani purtroppo ancora faticano a convincersene e non se ne daranno ragione fino a quando malattia e cura continueranno a essere considerate alla luce di considerazioni politiche.
È già successo, si continua così, e forse la Cina è l’esempio più evidente di questo contagio che a volte si è rivelato benefico. Penso all’epoca in cui tanti cinesi, per ragioni politiche, andavano a studiare medicina occidentale, tra loro Sun Yatsen il padre della Cina moderna, laureato a Honolulu in medicina e chirurgia, il poeta e archeologo Guo Moruo e infine Lu Xun il quale iscritto a medicina a Tokyo, abbandonò gli studi perché si rese conto che fosse più urgente curare le menti dei suoi connazionali più che i loro corpi perché, ha scritto “ la gente di un paese debole e arretrato, per quanto sia robusta e in salute, può solo agire da comparsa”.
Ma come curare le menti? In un suo famoso racconto “Medicina”, del 1919, Lu Xun affronta la credenza che all’epoca doveva essere assai diffusa, del potere taumaturgico di un boccone di mantou intriso del sangue di un uomo appena giustiziato. Mi è capitato però di leggere appena poche settimane fa, che molte opere di Lu Xun sono state escluse dalle letture scolastiche in quanto non rifletterebbero più lo spirito dei tempi, e che Medicina è uno di questi.
Ecco, il sintomo odierno del connubio cura e politica, mi pare che si riassuma in questo volere rinnegare e nascondere quanto di riprovevole o arretrato si era accumulato in passato, quasi si volesse riabilitare quella che si chiama Medicina tradizionale cinese rispetto alla medicina occidentale, quasi si volesse restituire alla Cina se non un primato, una sua indiscutibile sapienza, anche in campo medico.
Si potrebbe imputare a nazionalismo spinto questo desiderio, che all’epoca di Mao si manifestava con maggiore decoro. Proprio mentre le Guardie Rosse erano chiamate a distruggere tutto il vecchiume, veniva rilanciata una delle più antiche eredità cinesi mediche, la pratica dell’agopuntura. Anche quella era certo un Vecchiume, il suo insegnamento era stato bandito sin dal 1822. Eppure ricordo un manifesto degli anni ’70 che ritraeva un giovane dal cipiglio fiero il quale sollevava il braccio destro brandendo un ago come fosse stata una lancia.
Era a piedi nudi e portava a tracolla una cassetta di pronto soccorso. Sotto campeggiava la scritta I medici dai piedi scalzi servono gloriosamente il popolo.
Ecco, l’espressione” medici dai piedi scalzi “ che si dice fosse stata coniata da Mao in persona-ma allora tutto era attribuito a Mao- si riferiva a decine di migliaia di ragazzi e ragazze che dopo un breve corso di tre mesi al massimo per apprendere principi sanitari di base, si recavano ovunque, nei villaggi più sperduti, a curare contadini poveri e poverissimi scalzi come loro ai quali non potevano prescrivere introvabili antibiotici ma pozioni di erbe della farmacopea tradizionale, e aghi , come si faceva nei tempi antichi, terapie che Mao aveva sdoganato decretando “costano poco e funzionano”.
Con le riforme e il libero mercato sono spariti i medici dai piedi scalzi, non hanno più ricevuto nessun sussidio governativo. Così è crollata la copertura sanitaria in Cina ma la Medicina tradizionale , sospinta da Xi Jinping e dai suoi sogni, si sta avviando invece a riconquistare il predominio che aveva al tempo dell’Impero, in patria e ora anche all’estero, con un volume di affari ragguardevole , poche nuove speranze per la salute degli umani e il beneplacito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, corona virus permettendo o non permettendo, tanto è soltanto questione di politica.
Di Renata Pisu
[Pubblicato su il manifesto]