«Non è perché siete giornalisti che siete esentati dall’essere assassinati, se siete dei figli di puttana». Rodrigo Duterte già nel 2016 aveva esplicitato la propria visione dei media e della stampa. Roba da non credere, si potrebbe pensare, cose che succedono solo in Paesi lontani e con discutibili leadership, come le Filippine. E se in questi giorni il mercuriale presidente filippino ha difeso con foga la possibilità di fare dei sonnellini anche in occasione di eventi come l’Asean, saltando così importanti incontri, il suo scontro con i media, in particolare con un sito internet, è tornato d’attualità.
Duterte ha messo nel mirino, e si tratta di una metafora neanche troppo inverosimile, il sito internet Rappler, guidato dalla giornalista Maria Ressa, già giornalista investigativa in Asia per conto della Cnn. Il sito internet di Rappler nel tempo ha saputo creare una sorta di giornalismo indipendente nell’universo dei media nell’era Duterte. Si è occupata soprattutto della lotta alla droga di Du30 e lo ha fatto senza alcuna concessione al presidente filippino.
Duterte non ama trovare intoppi sulla sua strada – la sua biografia lo dimostra – e dapprima l’ha accusata di essere sostanzialmente agente di potenze straniere, un classico. Poi, dopo diverse minacce è partita un’inchiesta per evasione fiscale. Chiaramente l’obiettivo è colpire il sito e renderlo il più innocuo possibile, se non addirittura portare al suo collasso e alla sua definitiva chiusura.
La responsabile del sito, però, rischia 10 anni di carcere e nei giorni scorsi si è fatta sentire, accusando Duterte di voler chiudere una voce critica contro il suo operato.
Il suo grido d’allarme è stato sottolineato da alcuni media internazionali: in Italia, negli stessi giorni durante i quale Maria Ressa si difendeva dalle grinfie di Duterte, si stilavano liste di giornalisti buoni e giornalisti cattivi, senza alcun riferimento a Rodrigo Duterte o ai tanti leader che minacciano direttamente la vita dei giornalisti.
Il rapporto tra leader populisti e stampa è complicato, ormai il dato è fin troppo chiaro. E quello tra Duterte e i media filippini che cercano una loro indipendenza non è da meno. Su The Diplomat, già nel 2016, venivano ricordate le scorribande di Duterte e la complicata esistenza di una stampa autonoma e in grado di criticare l’operato del presidente nelle Filippine. Reporters sans frontières nel 2016 aveva posizionato le Filippine sul suo indice mondiale della libertà di stampa 2018 alla posizione numero 133 su 180 paesi. Secondo il report le Filippine sarebbero “il Paese più letale per i giornalisti in Asia”.
«Questo governo non ama le critiche e vuole un supporto compatibile. Questo è un Paese che ha visto centinaia di giornalisti assassinati dalla caduta di Marcos e pochissimi sono stati incarcerati per i loro crimini», ha detto l’accademico Karl Wilson. E, come aveva specificato a The Diplomat Sheila Coronel, direttrice del Toni Stabile Center for Investigative Journalism, «A Duterte non piace la stampa, che liquida spesso usando espressioni come “stronzate” o “spazzatura”».
Insomma Duterte sembrerebbe in linea con le recenti accuse alla stampa che viaggiano a ogni latitudine. Da Trump che si permette di togliere accrediti a giornalisti sgraditi, a Putin, per arrivare alle vicende di casa nostra, non è un buon periodo per la stampa e più in generale per il mestiere del giornalista. Senza dimenticare chi – inviso ai potenti – è stato brutalmente ucciso e non solo minacciato, come accaduto con Daphne Caruana Galizia.
Per quanto riguarda Rappler e le Filippine, il caso sembra da manuale: dapprima il governo aveva accusato il sito di notizie online “di non aver pagato le tasse sulle vendite obbligazionarie 2015 della società a due aziende straniere per un valore di 3 milioni di dollari”. Ma Rappler ha negato tutte le accuse.
Fondato da Ressa nel 2012, Rappler, come riporta il Guardian “è diventato uno dei siti di notizie più influenti nelle Filippine. Dopo l’elezione di Duterte nel 2016, Rappler è stato in prima linea nell’esporre le migliaia di esecuzioni extragiudiziali nella sanguinosa guerra alla droga del presidente e ha anche lavorato per far luce sull’esercito di troll che inondava i social media con propaganda pro-Duterte e minacce ai critici e giornalisti”.
Un po’ come accaduto di recente negli Usa, il governo di Manila aveva anche negato l’accesso al palazzo presidenziale al reporter del sito, salvo poi accusare la testata di essere, sostanzialmente, un agente del governo degli Stati Uniti. Infine l’accusa di evasione fiscale.
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.